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Caciocavallo stagionato e bruschetta all’olio di oliva, arrosticini a ventisei gradi all’ombra, patatine fritte, insalata con cetrioli e pomodori. Per finire, dolcetto al carbone vegetale con cuore di cioccolato al tartufo. Caffè e limoncello. Solo venendoci di persona si capisce il perché, qualche anno fa, il giro d’Italia ha fatto tappa da queste parti. Marcinelle è ancora oggi una little Italy d’oltralpe, tranquilla come una cittadina del New Jersey ma solo più operaia. Ci vivono i figli e i nipoti dei “musi neri” del Bois du Cazier, e qualche anziano ancora in vita. Sono le seconde e terze generazioni di emigranti, gente con il doppio e a volte triplo passaporto, discendenti delle migrazioni dal sud e dall’est d’Europa che si sono accoppiate fra loro durante il lungo secolo novecentesco.
Il giovane che aveva promesso un pasto frugale è uno di questi. Suo padre lavorava alla miniera e, come tutti gli italiani che arrivavano a Marcinelle, viveva in una baracca a un passo dal lavoro. Ha sposato una donna polacca e avuto due figli. Uno di questi gestisce un piccolo posto di ristoro a un centinaio di metri dai cancelli dell’ex miniera, ormai trasformata in museo e dichiarata dall’Unesco “Patrimonio mondiale dell’umanità”. All’interno c’è un flipper e la cucina è belga-abruzzese: arrosticini invece delle immancabili moules, le tipiche cozze belghe, e patatine fritte. La famiglia è originaria di Manoppello, in provincia di Pescara. Come Camillo e Rocco Jezzi, le prime due vittime italiane di cui si conobbero i nomi, dopo la tragedia dell’8 agosto 1956. E come altri trentotto suoi concittadini.
Dei 262 morti nella tragedia mineraria che sconvolse l’Europa facendo scoprire una schiavitù legittimata dai primi governi italiani del dopoguerra che commerciarono in uomini in cambio di carbone – duecento kg al giorno per ogni lavoratore – ben 61 erano abruzzesi. E Manoppello, un comune che all’epoca contava circa seimila abitanti, pagò il dazio più pesante. Ancora oggi molti italiani rimangono qui. Lo testimoniano le tante bandiere tricolore alle finestre e le facce delle persone che incontri per strada. Avrebbe dovuto essere un’emigrazione temporanea, quella dei nostri concittadini. Invece in tanti hanno messo radici da queste parti e non si sono mai mossi, smentendo quanto scriveva con qualche pregiudizio di troppo, all’indomani della strage, Le peuple, un quotidiano di ispirazione socialista e vicino al sindacato: “Se avesse voluto (il lavoratore italiano, ndr), forse avrebbe trovato, ai margini delle tetre periferie industriali, una casetta e un giardino. Ma lo spostamento gli sarebbe costato e vuole risparmiare molto per restare il minor tempo possibile in Belgio. E poi si sarebbe trovato solo, in mezzo a stranieri, mentre a lui piace sentire cantare nella sua lingua, mangiare le specialità della sua cucina e sfogarsi tra i suoi”. Per questo, concludeva, “accetta di vivere ai piedi dei terreni di scarico, dietro alle mura di vecchi accampamenti dei prigionieri di guerra”, “chiude gli occhi sui canali che scaricano l’acqua sporca del bucato e non vede più la sua baracca coperta di bitume, non sente più il triste odore che sale dall’accampamento”.
Parole che oggi potremmo ascoltare anche alle nostre latitudini, rivolte ad altri migranti. Ma dietro c’era anche dell’altro. Ai belgi non andava giù che gli italiani accettassero di lavorare di più e a condizioni peggiori, facendo regredire i diritti conquistati a fatica. Non si faceva lo sforzo di provare a capire chi erano i nuovi arrivati, da quale contesto provenissero e come venissero selezionati. Come avrebbe potuto, un’emigrazione dai piccoli e poveri paesi dell’Appennino, pensare di stabilirsi in una periferia industriale senza avvertire ancor più lo sradicamento? E in che modo avrebbero potuto farlo persone che non parlavano la lingua locale e che spesso leggevano negli annunci “non si fitta agli stranieri”? Senza considerare che l’alloggio era garantito, alla firma del contratto in Italia, dalla compagnia mineraria. La storia si è peritata di dimostrare il contrario.
Gli italiani, verso i quali la Democrazia Cristiana aveva usato la leva dell’emigrazione per attenuare il problema della disoccupazione e risollevare il Pil con le loro rimesse, non solo non sono tornati indietro ma sono stati artefici di una scalata sociale che tutti in Belgio riconoscono, come dimostra il caso dell’ex premier socialista Elio Di Rupo, anch’egli di origini abruzzesi e figlio di minatori. Quei contadini del nord, per la prima ondata, e poi del centro-sud, sono diventati la seconda comunità di migranti in Belgio, mantenendo radici identitarie molto forti e conservando persino le tradizioni contadine: prima di allora i belgi non conoscevano melanzane, peperoni e neppure il basilico. Gli arrosticini e il caciocavallo del barista di seconda generazione ne sono una testimonianza diretta.
L’ex lager nazista, poi capovolto dai rovesci bellici in campo di prigionia per i soldati tedeschi, oggi si è trasformato: le cantines, baracche di legno dove si viveva ammassati su letti di paglia, senza acqua, riscaldamento né servizi igienici, sono state abbattute e trasformate nelle casette basse in mattoncini tipicamente belghe, e così le “case di ferro”, come chiamano da queste parti i terribili hangar militari in cui si moriva di freddo d’inverno e si arroventavano nelle rare giornate di sole. Resistono, a memoria di quel che è stato, i terril, colline nere formatesi con i detriti di carbone sulle quali crescono piante ed erbacce, un po’ come il monte dei cocci di Testaccio, a Roma.
Marcinelle oggi è un tranquillo villaggio che conta appena un verduraio, un barbiere, il bar dell’emigrante di Manoppello e un ristorante. Dopo i tragici fatti del ’56, è assurto agli onori delle cronache solo in un’altra occasione. Fu quando si scoprì che un elettricista del luogo, Marc Dutroux, in più di un decennio aveva sequestrato, seviziato e ucciso alcune ragazzine. Si ipotizzò un giro di pedofilia molto più esteso, il governo e le forze di polizia finirono sotto accusa al punto che due ministri furono costretti a dimettersi, e a Bruxelles una “marcia bianca” di 350 mila persone chiese che si facesse luce fino in fondo sulla vicenda. Ma questa brutta storia non ha cambiato il volto di Marcinelle, un luogo-simbolo delle tragedie dell’emigrazione e della “guerra del carbone” che il piccolo Stato belga decidette di combattere per risollevarsi dal conflitto mondiale. Un passato che ha impiegato del tempo per essere archiviato definitivamente.
Il Bois du Caziers, dove i minatori scendevano fino ai 945 metri, come avvenne alle 8,10 della mattina dell’8 agosto 1956, senza protezione alcuna se non un caschetto, ammassati uno accanto all’altro in ascensori in cui non ci poteva neppure alzare in piedi, costretti a scavare il carbone in cunicoli alti al massimo cinquanta centimetri, ha chiuso i battenti oltre un decennio più tardi. L’ultima miniera è stata dismessa nel 1984, nonostante dopo i fatti di Marcinelle l’Italia avesse disdetto gli accordi con il Belgio. Ma, così come gli italiani avevano preso il posto dei belgi che non volevano saperne più di scendere nelle viscere della terra, allo stesso modo quest’ultimi furono rimpiazzati da turchi e marocchini.
La strage fu uno spartiacque. Il governo italiano fu costretto, sull’onda dell’emozione, ad aprire gli occhi. Il Corriere della Sera il giorno dopo titolò “Tragedia nostra” un commento di Dino Buzzati: “Bois du Cazier, questo lontano posto che non si era mai sentito nominare, diventa Italia”. Ruben Tedeschi, inviato dell’Unità, dettò a braccio: “Uno spettacolo pauroso si è presentato ai nostri occhi quando siamo giunti davanti ai cancelli della miniera. Il fumo – un fumo denso, nero, acro – oscurava il cielo e rendeva l’aria irrespirabile. Dal cielo buio cadeva una pioggia silenziosa di fuliggine. Di tratto in tratto, l’oscurità era lacerata da lingue di fuoco che guizzavano ruggendo dalle miniere della terra. Una folla composta in massima parte di donne e di bambini, a stento trattenuta da cordoni di gendarmi, faceva ressa per avere notizie, si accalcava intorno ai membri delle squadre di soccorso che, dopo ore e ore di durissimo lavoro, tornavano alla superficie. Le informazioni che costoro recavano non erano rassicuranti, e, nella loro inevitabile contraddittorietà, contribuivano ad alimentare l’incertezza e la confusione. Dalla folla si levavano lamenti, invocazioni e invettive: invettive contro il destino, ma anche contro coloro che portavano la pesante responsabilità della sciagura. Erano frasi gridate in molte lingue: in francese, in fiammingo, in greco, ma, soprattutto, in italiano, perché italiani sono in massima parte, i sepolti vivi e italiani i loro figli e le loro mogli”.
Oggi la crisi batte forte pure da queste parti. A Marcinelle, chiusa la miniera, il museo, una sorta di monumento alla civiltà industriale, non basta a garantire il benessere degli abitanti. Tutta l’area, nata intorno alla grande industria manifatturiera, versa in una crisi quasi irreversibile. Perfino il terziario e la logistica soffrono della stagnazione economica. I tassi di disoccupazione sono ai livelli del sud d’Europa e il nord ricco e fiammingo è sempre più insofferente nei confronti del sud povero e, a loro detta, dissipatore di risorse pubbliche. È per questo che la destra nazionalista guidata dal sindaco di Anversa ha spopolato nelle Fiandre e il premier Di Rupo è stato costretto alle dimissioni. A sud, nelle zone operaie, i socialisti sono ancora il primo partito (con i comunisti del Ptb e i Verdi sfiorano il 50 per cento dei consensi) e resiste una solida cultura sindacale. È questa la vera differenza con il vicino nord della Francia, dove il voto popolare è traslocato tutto verso l’estrema destra del Front National. Che fare, dunque? Il barista pare avere pochi dubbi. “Qui le cose vanno male. Torno in Italia. Proverò ad aprire un bar sul mare, a Montesilvano”. Come a dire, quando i figli emigrano nelle terre dei padri.