Le “politiche alimentari urbane” sono uno dei temi più interessanti discussi nel contesto dell’Esposizione Universale di Milano, il cui principale lascito è stato probabilmente la firma dell’Urban food policy pact, l’atto sottoscritto da 113 amministrazioni provenienti da Europa, Asia, Africa, Oceania e America, che rappresenta “il primo patto internazionale tra sindaci sulle politiche alimentari urbane”. Città di tutto il mondo, da Medellin a Norimberga, hanno approfittato della ribalta internazionale per presentare le loro strategie per curare la dieta e l’alimentazione e per evitare la malnutrizione dei propri abitanti. Considerato il costante aumento della popolazione urbana del pianeta, destinata a raggiungere i 5 miliardi (60% del totale) entro il 2030, l’attenzione per queste politiche è ben giustificato.

Governare l’alimentazione urbana significa, infatti, presiedere alla nutrizione di quella parte della popolazione mondiale che non ha accesso diretto alla produzione agroalimentare: le città importano il proprio nutrimento dall’esterno. Tale condizione rende cruciale e al contempo fragile la posizione delle metropoli: le città del pianeta raggruppano – contemporaneamente – la fetta maggiore della popolazione e anche quella che maggiormente dipende, per la propria sopravvivenza, dall’acquisto sul mercato. Le politiche alimentari (food policy, Fp), comprese quelle urbane, sono uno degli aspetti più complessi della gestione della città. L’implementazione di un’efficace Fp impone la strutturazione di governance efficienti, di un efficace collaborazione e cooperazione tra pubblico, privato e società civile, una radicata conoscenza delle strutture produttive e di distribuzione del territorio

A complicare la realizzazione, la gestione e l’implementazione delle Fp contribuiscono molti fattori, quali la volubilità del mercato alimentare, la disponibilità dei prodotti, le dinamiche del commercio mondiale. Recentemente, inoltre, un emergente fenomeno sta minando l’efficacia delle food policy, sia distorcendo il mercato, sia alterando l’immagine e le informazioni che dal mercato possono essere raccolte: la contraffazione, l’adulterazione e il contrabbando del cibo. Quando si parla di food crime (Fc, crimini alimentari), si intende una moltitudine di azioni che violano food safety e food security (in italiano traducibili entrambi con sicurezza alimentare). Secondo le definizioni dello United nations interregional crime and justice research institute (Unicri), i Fc possono essere suddivisi in counterfeiting (contraffazione), contamination (contaminazione), economic adulteration (adulterazione economica) e food fraud (frode alimentare).

Ogni tipologia di reato ha un suo ambito (chimico-biologico, economico), e ognuno a suo modo colpisce il singolo consumatore e la comunità. La dimensione stessa del crimine varia molto: si passa dalla vendita su larga scala di prodotti di uso comune (l’olio d’oliva è purtroppo un frequente esempio) a mercati di nicchia di prodotti pregiati (caviale, liquori pregiati). Sia la perdita, sia – nei casi peggiori – il danno fisico causati dall’acquisto e dal consumo di questi prodotti comportano un problema per l’individuo – quantomeno frodato nell’acquisto – e per la comunità di appartenenza – che, specie nei casi più gravi, è chiamata a intervenire per ristabilire la condizione economica e sanitaria del consumatore.

I crimini alimentari sono compiuti ovunque esista un consumatore. Tuttavia, le peculiarità del contesto li rendono particolarmente pericolosi nelle città. In primo luogo, i Fc sono generalmente considerati come legati al mondo rurale. L’immagine resa dai mezzi di comunicazione è spesso la contraffazione di prodotti agroalimentari pregiati: formaggi, insaccati, vini venduti con certificati di qualità e di origine fasulli, oppure verdure e carni distribuite con indicazioni false o adulterate nella composizione biochimica. L’elenco potrebbe continuare, ma – a causa anche del legame logico tra produzione agroalimentare e campagna – non riguarderebbe la città, che da questi fenomeni è lontana e ne è, implicitamente, protetta.

In secondo luogo, gli abitanti delle città hanno ridotto accesso alla produzione diretta. La maggioranza dei consumatori italiani, sebbene frequenti saltuariamente i mercati settimanali, per necessità o comodità acquista il proprio cibo da rivenditori terzi. Questo significa che la capacità del consumatore cittadino di verificare l’autenticità del prodotto attraverso la conoscenza diretta della filiera è estremamente limitata. E questo lo rende un soggetto estremamente fragile e debole di fronte al rischio di frode alimentare. Un terzo elemento è la presenza, specie nelle aree urbane, di consumatori che ricorrono al mercato nero per approvvigionarsi di prodotti cui altrimenti non potrebbero accedere. Come hanno dimostrato gli studi condotti dall’International chamber of commerce (Icc-Bascap), gli acquirenti sono disposti a comprare un prodotto dichiaratamente non regolare, purché questo garantisca un risparmio.

Lo studio, che divideva gli acquirenti in “compratori contenti” (coloro che ritengono l’acquisto un buon affare), “consumatori in difficoltà” (coloro che acquistano per necessità), “acquirenti innocenti” (coloro che ritengono l’acquisto sul mercato nero come un atto moralmente accettabile) e “consumatori frustrati” (coloro che comprano come atto di protesta contro i prezzi eccessivi), faceva notare come una parte considerevole degli acquirenti ignorasse le avvertenze e le indicazioni, a patto di riconoscere nell’operazione un immediato vantaggio (in particolare se economico). Studi simili promossi dallo United nations office for drug and crime (Unodc) dimostrano che la crisi economica, causando una diminuzione del reddito, da una parte, ha aumentato il numero dei potenziali acquirenti e, dall’altra, quello dei di prodotti contraffatti presenti sul mercato.

Interpol, Europol (all’estero) e Nas, Guardia di finanza e il Corpo forestale (in Italia), in una serie di recenti operazioni internazionali hanno portato alla scoperta di truffe concernenti prodotti di medio e basso costo. Pane d’Altamura, Asiago, Grana Padano, olio extravergine d’oliva, mozzarella: prodotti d’uso quotidiano. Il mito di Robin Hood diventa in questo contesto l’“effetto Robin Hood”. Persiste nel consumatore la speranza, la convinzione, che il prezzo eccezionalmente basso sia il risultato di un atto di generosità (A Poddar, J Foreman, B Syagnik, EP Scholder, in Journal of Business Research, 65/10, 2012).

Le food policy sono direttamente coinvolte dai food crime. Da una parte, la prevenzione del fenomeno è uno dei temi che queste politiche devono affrontare. Dall’altra, i Fc possono contribuire a rendere inefficaci e non-effettive le strategie utilizzate dalle amministrazioni locali e nazionali, distorcendo l’immagine del mercato e i dati sui consumi alimentari. In particolare, le policy che aspirano a intervenire sui soggetti marginali e fragili (anziani, migranti, giovani e bambini) devono interfacciarsi con un mercato irregolare che offre prodotti contraffatti, adulterati o contrabbandati. La politica del voucher rappresenta un ottimo esempio di come agisca e di quali siano le attrattive del mercato della contraffazione. Il voucher (che consiste in una somma spendibile sul mercato attraverso un buono, una carta di credito o un apposito documento) è uno strumento largamente utilizzato da Stati e organizzazioni internazionali (il Wfp in particolare) per affrontare situazioni difficili (come l’immigrazione siriana a Istanbul o il crollo del reddito nelle periferie di Barcellona).

Per un consumatore con potere d’acquisto limitato, in un contesto in cui il prezzo è un fattore cruciale nella scelta, l’acquisto di un prodotto contraffatto può significare una riduzione della spesa immediata (Z Toth, 2012). Ulteriore incentivo all’acquisto di prodotti contraffatti è la maggiore disponibilità di denaro derivante dalla minor spesa, che permette un maggior numero di acquisti: “consumatori in difficoltà” si trasformano così in “compratori contenti”. Tali considerazioni sono maggiormente stringenti in ambito urbano, proprio perché auto-produzione e conoscenza diretta della filiera sono estremamente difficili e rare.

Per fronteggiare una situazione simile, è necessario che tutti gli stakeholder agiscano per contrastare il fenomeno. Come dimostrato da alcuni progetti pilota, la risposta maggiormente efficace, e una generale diminuzione dell’acquisto di prodotti contraffatti, avviene quando la popolazione cittadina è adeguatamente informata e educata. Nel corso di alcuni progetti-pilota in Ungheria e Malesia è emerso che istruire il consumatore sui rischi economici e sanitari connessi al consumo di prodotti non garantiti è un ottimo strumento di prevenzione.

D’altra parte, la regolamentazione non è sempre sufficiente. I vantaggi dell’inganno, la probabilità di essere scoperti e la – debole – sanzione in caso di scoperta sono incentivi per i food crime. E del resto è significativo notare l’aumento esponenziale dei sequestri effettuati da Interpol ed Europol, che se da un lato testimoniano la loro accresciuta efficienza, dall’altro – per stessa ammissione dei responsabili delle operazioni – dimostrano l’aumento considerevole del fenomeno a livello mondiale. Per il futuro, quindi, i food crime dovranno essere considerati una minaccia trasversale, in grado di mettere a repentaglio la filiera agroalimentare come le food policy urbane. Sarà pertanto necessario sviluppare azioni e norme che tengano in considerazione le peculiarità dell’ambito cittadino, ne tutelino gli abitanti e favoriscano la resistenza alla diffusione dei prodotti adulterati e contraffatti.

Giovanni Venegoni è ricercatore presso il Milan center for food law and policy