L’approdo, qualche giorno fa, nel porto di Bari di una nave militare britannica con oltre seicento migranti ha rappresentato, nell’emergenza dell’evento, un’altra bella pagina di generosità e spirito di solidarietà di tanti baresi. La macchina dell’accoglienza ha smosso associazioni di volontariato, forze dell’ordine, servizi sociali, comuni cittadini fino al massimo rappresentante della città. Tuttavia non vanno sottaciute le reazioni, alcune ben oltre il limite della calunnia e del più volgare razzismo, piovute sulla pagina social del sindaco De Caro, autore della gara di solidarietà dei suoi concittadini nella raccolta di beni di prima necessità da destinare ai passeggeri della nave, privi di tutto. Reazioni sulle quali è opportuno indagare e interrogarci, per approfondire le motivazioni e le possibili conseguenze di queste inquietudini, che spesso rasentano l’odio verso lo straniero, percepito come elemento di destabilizzazione, come invasore, nemico e quasi causa di gran parte dei mali degli Italiani. Un diverso, portatore di una cultura e una civiltà estranea, da cui diffidare.

Certo, dobbiamo distinguere tra accoglienza, protezione e garanzia di riconoscimento di diritti e integrazione. Perché la disponibilità e la generosità dei cittadini non va confusa né può sostituirsi all’accoglienza programmata e ad un successivo inserimento e all’integrazione, per cui occorrono serie politiche dedicate. Che comportano un tessuto associativo consistente, capace di accogliere gli stranieri e accompagnare l’inclusione, città che creano le condizioni migliori di alloggio in centri di accoglienza per gli emigranti: vale a dire forme di un’ospitalità che un governo deve avere la possibilità di mettere in atto e incentivare. Oltre che assicurare modalità strutturate, un margine di sicurezza rispetto a chi accoglie e rispetto reciproco delle culture che arrivano a fondersi. Che non può essere improvvisato.

Tuttavia, il primo gradino dell’integrazione rimane una percezione reale dell’immigrato, che dovrebbe essere filtrata da una buona politica e una informazione adeguata, anche attraverso la stampa, lontana dall’alimentare una rappresentazione degli immigrati scontata, narrata nella migliore delle ipotesi come massa omogenea anziché soggetti distinti, portatori di umanità, di identità e di storie personali. Nella peggiore delle ipotesi, gli stessi vengono connotati come persone legate ad episodi di criminalità. Connotazione che si traduce in percezione che diventa prevalente nell’opinione pubblica. Una percezione che ha come suo fondamento la graduale eppure continua perdita della sicurezza dei cittadini, collegata ad una loro fragilità che significa incertezza nel lavoro e delle prospettive di vita, contrassegnata da una flessibilità sempre maggiore del mercato del lavoro e della precarietà del quotidiano. Una fragilità esistenziale e un ridimensionamento di spazi e di certezze messi a rischio, in una società globalizzata, ancora di più con l’arrivo degli stranieri, nel comune sentire. Né rende un buon servizio quella politica – dispensatrice di odio per mero calcolo elettorale e per xenofobia convinta – che a fronte di 200 mila sbarchi in un anno parla di invasione e che invece rappresentano un fenomeno complicato ma doveroso da governare, senza creare allarmismi ma con un protagonismo e un’assunzione di responsabilità maggiore dell’Unione Europea tutta.

Al contempo, è ancora più inutile ripromettere limitazioni degli arrivi, perché i flussi migratori continueranno. L’idea che la chiusura delle frontiere possa limitare i flussi migratori è irreale e irresponsabile e ignora completamente la realtà delle migrazioni. E non farebbe che rendere gli spostamenti più precari, più costosi e pericolosi, trasformando il mediterraneo in un massacro. Perché aprire le frontiere significa prima di tutto consentire alle persone di viaggiare in condizioni sicure e degne e significa mettere fine alla tragedia che si gioca alle frontiere dell’Europa. E lo diciamo forte anche a Kurtz, ministro degli esteri austriaco, che minaccia di chiudere il Brennero se i migranti si muovono da Lampedusa. Non si può sbattere la porta alla disperazione ma bisogna gestire i flussi legali di migranti con la collaborazione responsabile dell’Europa.

E gli italiani, i cittadini, hanno il diritto di essere informati, e in modo esaustivo, sulle situazioni da cui fuggono questi migranti. Da paesi vittime da secoli di politiche predatorie da parte degli Stati europei, così come da guerre su cui soffiano per ragioni geopolitiche le potenze occidentali, che invece di finanziare e cooperare allo sviluppo di quei paesi, invece di trasferire competenze e offrire soluzioni tecnologiche, spingere per un riequilibrio nella distribuzione delle ricchezze a partire dal valore dei prodotti primari di cui sono spogliati molti paesi africani o asiatici, contribuire a creare stabilità politica, preferiscono piuttosto vendere armi ai tiranni o ai dittatori al potere.

Bando al buonismo terzomondista: noi parteggiamo affinché la complessità del fenomeno non si riduca a bieca propaganda populistica. Ad alimentare le paure contribuisce anche l’opacità e l’incapacità della politica europea di costruire risposte alla lunga crisi che ha condotto a un peggioramento generale delle condizioni di lavoro e di vita mentre il mondo della finanza ha continuato ad arricchirsi e speculare su questa diffusa insicurezza e precarietà. Sanare queste ingiustizie e queste iniquità, intervenendo nella ridistribuzione globale del reddito, è la questione fondamentale alla base del tema migrazioni.

L’immigrazione tuttavia è un fenomeno enorme e complesso, capace di cambiare il volto di una società e va governato. Presenta notevoli implicazioni economiche, sociali, culturali, di ordine pubblico. E ha ricadute sia problematiche che di benefici, che non sono un dato fisso e inevitabile ma il risultato della capacità di gestirlo.

Non possiamo trascurare, inoltre, l’aspetto legato alle opportunità che l’immigrazione rappresenta per un paese come l’Italia, sempre più anziano, con i giovani in cerca di un futuro all’estero, con un’economia in stallo da tempo ormai. Le statistiche ci dicono che gli immigrati integrati che lavorano, contribuiscono in maniera importante alla sostenibilità del nostro sistema economico e pensionistico. Per il presidente dell’Inps i contributi a fondo perduto degli immigrati valgono ogni anno 300 milioni di entrate aggiuntive nelle casse dell’Istituto. Pare necessario però l’inserimento stabile degli immigrati nel lavoro regolare.

La dimensione dell’immigrato-uomo tuttavia, spesso è trascurata anche da coloro che vedono nell’immigrazione una risorsa, perché proprio la dimensione di umanità può essere calpestata e offesa, se l’immigrazione è incoraggiata senza nessuna gestione o controllo e sfruttata come forza lavoro. E i casi di schiavitù selvaggia li ritroviamo con i braccianti nei ghetti come sulle impalcature di edili senza sicurezza. Ogni discussione su questo tema, infatti, non può essere una fredda comparazione di costi e benefici: parliamo di persone. La diffidenza verso lo straniero si combatte principalmente garantendo diritti e lavoro a tutti, amalgamando le differenti culture con un senso di sicurezza esistenziale nel campo del lavoro, della salute e dei diritti. Non basta cancellare ideologicamente il razzismo, a scuola o nei media, ma va fatto attraverso il riconoscimento degli stessi diritti a tutti. 

Qualche giorno fa sono rimasto molto toccato da un brano letto da Elio Germano che sembrava rappresentare plasticamente l’immaginario collettivo di una gran parte della popolazione nei confronti degli immigrati, uomini neri, brutti, sporchi e puzzolenti. Mi ha fatto molto riflettere poi, quando ho scoperto che non si parlava degli immigrati dei nostri tempi ma di una relazione presentata dall’Ispettorato per l’immigrazione nel Congresso degli Stati Uniti del 1919, che così dipingeva gli italiani. Forse un bagno di umanità e guardarci indietro non può che farci bene. All’epoca i meridionali sfuggivano a condizioni di miseria ed erano considerati appestati. Che però con la loro manodopera hanno costruito benessere per sé stessi e nei paesi in cui sono emigrati. Ora tocca a noi costruire accoglienza, umanità, dignità e diritti per chi quelle condizioni vive in un’epoca ancora più aspra e difficile. Oltretutto, dobbiamo guardare e vivere la diversità non con la paura della contaminazione o come attacco alla nostra civiltà ma come arricchimento prodotto dalla fusione delle culture. Programmando una inserzione nello Stato italiano che riparte da uno ius soli che apre le braccia a quei bambini con genitori già da tempo residenti in Italia e uno ius culturae che concretizza una cittadinanza diventata attiva attraverso l’istruzione. Leggi avanzate che aprono anche culturalmente la strada ad una assimilazione reale e ad un incrocio di civiltà.       

Un ultimo aspetto da considerare riguarda un altro pregiudizio sull’immigrato, considerato come colui che sottrae lavoro agli italiani. In realtà il tema vero è quello del dumping, di una concorrenza sleale, alimentata ad arte da imprenditori senza scrupoli, che giocano sul bisogno e sulla pelle del migrante per abbattere salari e tutele. Questo danneggia tutti, la ricchezza collettiva e il diritto del singolo. Per evitare questo, va affrontata e risolta in prima istanza la condizione di disuguaglianza sociale che rende ricattabile il migrante, e spetta alla politica farlo. Costruire cioè le condizioni per renderlo uguale agli altri, con gli stessi diritti e gli stessi doveri. Da parte nostra continueremo a informare i lavoratori, denunciare le situazioni di illegalità, rappresentare le battaglie per il rispetto dei contratti e dei diritti, che sono uguali per tutti, a prescindere dal colore della pelle e dal paese di nascita. L’unità del lavoro e dei lavoratori è assieme traguardo di civiltà e di legalità.

Questi gli strumenti con cui la Cgil combatte ogni forma di discriminazione, odio e paura. Lo dice Camusso:“Quando parliamo di immigrazione non si può ragionare in termini emergenziali, perché lo sfruttamento dei lavoratori migranti è il prodotto di grandi disparità”. Noi possiamo contribuire ad abbatterne tante. La Cgil è da sempre multietnica e multiculturale. Perché i diritti non hanno colore né conoscono differenze. Sono uguali per tutti.

* Pino Gesmundo è segretario generale della Cgil Puglia