“Ci siamo messi seduti a pensare. Immaginare, in questo momento di fermo totale delle attività, come potremo in futuro rilanciarle, perché sono sicuro che tutto questo, prima o poi, finirà”. Marco Zordan, direttore del Teatro Trastevere di Roma, nonostante tutto, non perde il suo ottimismo. Dentro, il sipario del suo teatro è chiuso, le poltrone vuote, le luci a mezza sala. Fuori, la saracinesca è abbassata per tre quarti sotto l’insegna. Hanno resistito fino alla fine, cercando di interpretare in maniera creativa la clausola della distanza di sicurezza, trasformando una platea di oltre cento poltrone in una di quaranta. Una serie di fogli bianchi a indicare non i posti riservati, come si fa nelle prime, ma quelli non disponibili. Ora, però, non si può più, la chiusura imposta è categorica e il decreto vieta qualsiasi forma di spettacolo dal vivo. 

Marco Zordan, cosa significa, nel concreto, per un teatro abbassare la saracinesca e il sipario? 

Significa non avere alcun incasso, rosicchiare il margine di guadagno relativo ai mesi precedenti, sospendere gli abbonamenti, sospendere i rapporti di lavoro che abbiamo con i nostri dipendenti: la persona che si occupa delle pulizie in teatro, il datore luci, chi sta al botteghino e fa la maschera. Significa mettersi seduti e pensare a quando tutto questo, prima o poi, finirà. E quando finirà, io credo che dovremo fare tutti una grandissima opera di rilancio del teatro. La comunità allora avrà bisogno di tornare alla normalità e noi dovremo farci trovare pronti, restare in ascolto delle necessità, degli umori, tendere l’orecchio. Non potremo andare avanti semplicemente come se non fosse successo nulla. Certamente, dovremo pensare anche a limitare i danni economici.

In una prima fase, avete cercato di rispettare alla lettera le norme stabilite, prendendo le misure con il metro. Perché avete scelto di non chiudere subito?

In una situazione di grande incertezza, ci siamo dati almeno 24 ore di riflessione per capire quello che le istituzioni ci chiedevano, con senso di responsabilità verso una situazione che poi nei giorni successivi è degenerata. Volevamo darci un’opportunità, abbiamo fatto i calcoli che ci erano richiesti e abbiamo verificato che, nel rispetto delle norme, avremmo potuto ottenere una platea di quaranta posti (a partire dalla nostra che si aggira sui cento). Non è stata una decisione vantaggiosa sul piano economico e non l’abbiamo presa per questo motivo, ma perché volevamo, nel rispetto dei provvedimenti presi, mantenere accesa una fiammella, sia per noi operatori dello spettacolo, sia per chi avesse voluto usufruire di questa opportunità, sempre a debita distanza. Non abbiamo voluto mettere in atto alcuna forma di disobbedienza, ma dare il segnale che, anche nell’emergenza, continuavamo ad esserci. Continuiamo a pensare di aver fatto la cosa giusta. 

Che tipo di risposta avete avuto dal pubblico?

Rimanere aperti ci ha fatto rendere conto del grande problema di pubblico che cominciavamo ad avere a causa di questa situazione. Era diventata talmente grave che era complicato riuscire a veicolare il messaggio che qualcosa ci fosse ancora. Abbiamo avuto una ventina di spettatori a replica, abbiamo capito che c’era un grande timore di venire a teatro. Questa esperienza ha coinvolto noi così come i teatri grandi, che ogni giorno perdono centinaia e centinaia di euro se la macchina si ferma. Ci siamo tutti resi conto che non era una questione di metro, ma di un calo drastico delle vendite dei biglietti. Basti pensare che i Momix, in scena all’Olimpico, hanno venduto l’80% dei biglietti in meno rispetto all’anno scorso. Gli spettatori che sono venuti a trovarci avevano invece la curiosità di “sperimentare” questa forma diversa di teatro. Noi abbiamo sempre rispettato le norme igienico-sanitarie, la giusta distanza, condividendo la responsabilità con il pubblico. Da questo punto di vista è stato bello vedere persone disposte a cedere un piccolo pezzo della loro libertà, per fare in modo che qualcosa continuasse ad esistere. 

Il teatro non è solo quello con un palco e una platea. Vi state ingegnando per trovare delle alternative?

Si, nel rispetto dell’appello a uscire il meno possibile. Ma questo è il nostro lavoro. Le persone che devono, continuano ad andare a lavoro e anche noi cerchiamo di trovare il modo di farlo. Le cose che vorremmo realizzare sono due. La prima è trasformare il nostro teatro in una sorta di factory, che ci permetta di condividere questa situazione di difficoltà con gli altri colleghi del settore. Vorremmo che il teatro restasse aperto, che ci entrassero una, due persone alla volta, per mettersi seduti in platea e pensare a quale sarà il loro piano B. Vorremmo offrire un servizio, con un piccolo contributo a copertura delle utenze, a una comunità di lavoratori economicamente molto segnata da quello che sta accadendo. La seconda cosa che ci piacerebbe fare è usare il nostro spazio come il luogo da cui raccontare attraverso l’arte, il teatro, la poesia, questo momento storico che stiamo vivendo. Tutto ovviamente trasmesso in streaming. Vorremmo essere una carezza, in mezzo al sensazionalismo e ai clic sulle notizie del giorno. Speriamo che questo potrà servire, come sempre serve l’arte, a guardare le cose sotto una lente diversa. 

La chiusura improvvisa dei teatri ha fatto saltare stagioni e cartelloni. Avete pensato a come recupererete rispetto agli accordi fatti con le compagnie?

Al momento lo stop è fino al 3 aprile, ma non sappiamo quando tutto questo davvero finirà. Sicuramente siamo pronti a dare ospitalità nella stagione 2020-2021 alle compagnie che erano nel nostro cartellone quest’anno. Stiamo parlando di produzioni al rush finale, soldi spesi per le prove, l’allestimento, spettacoli al debutto prima della stagione estiva, che aspettano solo di andare in scena. Anche noi ci sentiamo di aspettare che possano salire sul nostro palco, quando tutto sarà tornato alla normalità.