I giovani italiani non sono affatto bamboccioni viziati. Anzi, hanno un rapporto col lavoro assai più realistico di genitori e imprese. È quanto emerge da una ricerca effettuata da Gi Group, nell’ambito del programma YOUng FIRST, intitolata “I giovani italiani e la visione disincantata del mondo del lavoro”, e realizzata in collaborazione con OD&M Consulting. Sono stati intervistati 1.000 ragazzi tra i 15 e i 29 anni, 1.000 adulti tra i 40 e 64 anni e 30 aziende. Ebbene, i risultati che emergono sono netti: mentre per trovare lavoro e fare carriera genitori e imprese credono nel valore del merito (tra cui competenze, titolo di studio, sapersi presentare bene, usare strumenti di ricerca, annunci, eccetera con voto medio pari a 7,9 punti); 8 giovani su 10 considerano, però, altrettanto importanti i fattori non meritocratici (voto medio 7,1 punti), fra cui emergono fortuna e conoscenze, in particolare di persone potenti.

Inoltre, il lavoro per il 42 per cento dei giovani rappresenta per lo più la possibilità di portare a casa uno stipendio e solo in seconda battuta un’occasione di realizzazione personale (36 per cento), rendendo evidente, quindi, la prevalenza del suo aspetto strumentale. Da segnalare in controtendenza donne, laureati, lavoratori autonomi e con contratto flessibile, che mettono al primo posto la realizzazione personale (43 per cento).
Per i ragazzi gli aspetti più importanti di un lavoro riguardano le buone relazioni (specie con capi e colleghi, con voto pari a 7,9 punti), la sicurezza del posto di lavoro (8,2) e, a seguire, gli aspetti espressivi, tra cui contenuti interessanti e miglioramento dello stipendio (8); meno importanti gli aspetti legati alla crescita professionale e alla carriera (achievement), considerati, invece, di più da genitori (+1,1 punti) e aziende (+0,5).

Rispetto alla crisi e al quadro negativo la buona notizia è che i giovani, pure a fronte di questo realismo un po’ disincantato, tuttavia non si arrendono: 9 su 10 considerano, infatti, la perseveranza il fattore più importante per trovare impiego, così come i loro genitori e le aziende.

Ma quale lavoro preferibbero? Qui i dati sono leggermente in controtendenza: se è vero infatti che per un giovane su 4 il settore pubblico rappresenta il lavoro ideale, 1 su 6, se potesse scegliere, avvierebbe una propria attività, contrariamente al 25 per cento dei genitori che vorrebbe impiegato il proprio figlio in una multinazionale. Otto ragazzi su 10, poi, sono disponibili a trasferirsi per lavoro, soprattutto in altre regioni d’Italia (circa 40 per cento) o in Europa, mentre le aziende consigliano quasi tutte paesi emergenti o extraeuropei.

“Instabilità generale, mancanza di punti fermi, crisi persistente sembrano aver minato lo slancio proprio dei giovani che appaiono disincantati, pragmatici e meno rampanti rispetto al passato e ai genitori, ma più realisti e decisi a tenere duro a fronte della crisi e del crescere della disoccupazione – commenta Stefano Colli-Lanzi, amministratore delegato di Gi Group –. Si tratta di una generazione di mezzo, che da una parte porta con sé il retaggio di una certa “cultura” del passato tale per cui l’unico modo per trovare lavoro sembra dipendere dalle conoscenze giuste, dall’altra però sta prendendo coscienza di avere la responsabilità del proprio futuro. Tutti noi dobbiamo, quindi, lavorare affinché questo disincanto non si trasformi in nichilismo sino a ridurre l’obiettivo del lavoro ad un generico portare a casa lo stipendio”

Elementi positivi, dalla ricerca, non mancano. Per esempio quasi due terzi dei giovani riconoscono la grande importanza dei servizi forniti dalle scuole, dalle università e dallo stage per l’orientamento e per prendere consapevolezza delle proprie attitudini.