Quando ero stato alla Fralib, alla fine di gennaio, nessun segnale lasciava presumere quello che sarebbe accaduto in capo a pochi mesi. In molti, tra i partecipanti al primo meeting europeo delle fabbriche recuperate nei locali occupati, speravano che la battaglia potesse essere vinta, ma nessuno ne poteva prevedere l’esito. Gli stessi lavoratori, oggi, sanno bene che il risultato è andato al di là delle loro aspettative. Chi l’avrebbe mai detto che da una sperduta zona industriale nelle campagne della Provenza sarebbe arrivato il primo segnale d’inversione di tendenza nelle politiche di delocalizzazione che stanno desertificando il lavoro in Italia?

Lo stabilimento della Fralib era occupato da 1.336 giorni
, tre anni e mezzo, dai lavoratori che, da un giorno all’altro, si erano visti chiudere la fabbrica perché i proprietari, la multinazionale anglo-olandese dell’alimentare Unilever, avevano deciso di andarsene laddove, in Europa, la forza lavoro costa meno: in Polonia. A poco erano serviti gli scioperi, i picchetti, le manifestazioni e la solidarietà degli operai delle fabbriche vicine e persino un viaggio infruttuoso di una delegazione nel nuovo stabilimento polacco: la Fralib, che imbustava le bevande storiche, da queste parti, con il marchio dell’elefantino, nonché il popolare tè Lipton, aveva chiuso. E nel clima da mors tua, vita mea reso possibile dalle disparità sociali e salariali e dalla fame di lavoro che imperversa in Europa, gli operai dei due paesi si erano ritrovati a parlare lingue diverse e la solidarietà non era scattata.

Non solo. La Unilever pretendeva di smontare la fabbrica e portarsela all’altro capo del continente. Ma non aveva considerato l’ipotesi che l’elefantino provenzale potesse improvvisamente imbizzarrire. Così, gli operai occuparono la fabbrica e risultò inutile ogni tentativo di spaventarli o cacciarli usando la forza (“hanno inviato a sgomberarci contractors addestrati nelle guerre balcaniche, sono arrivati di notte calandosi dall’alto, ma hanno trovato trecento persone ad attenderli”, ricordano i “fralibiens”), amministratori in giacca e cravatta ad addolcirli con promesse, avvocati a ingraziarli con profferte economiche finalizzate a inverare l’antico motto del divide et impera.

Olivier Leborquiez, Amar Hassani e 74 altri compagni e compagne hanno detto di no a ogni offerta singola (“sono arrivati a proporci 80 mila euro a persona, ma abbiamo detto di no, che era troppo poco, ne volevamo almeno 200 mila, l’equivalente di cinque anni di stipendio, solo per il danno morale subìto. Poi vogliamo tornare al lavoro, perché sappiamo di poter far funzionare quest’impianto”, mi avevano detto a gennaio), da 25 fabbriche del circondario gli operai hanno garantito la vigilanza allo stabilimento occupato, il sindacato Cgt ha condotto le trattative con il governo e l’azienda, Francois Hollande è venuto a paventare addirittura la nazionalizzazione della fabbrica, la municipalità di Marsiglia (a guida socialista) ha requisito temporaneamente i terreni e i macchinari al prezzo simbolico di un euro, il Pcf ha offerto gli stand delle feste dell’Humanitè per vendere il mate “prodotto da fabbrica in lotta” e le tisane al tiglio che avevano sostituito le vecchie bevande.

Alla Fralib, in tre anni e mezzo di lotta, è stato un via vai di solidarietà militante: dai “rossi” del Front de Gauche agli anarchici dell’Associazione per l’autogestione, in tanti si sono dati da fare per la rinascita della Fralib. Alla fine di gennaio sono arrivati ricercatori e docenti delle università di San Paolo, Buenos Aires e Città del Messico per osservare il “modello europeo” e raccontare loro le esperienze d’oltreoceano (dalle “empresas recuperadas” argentine a quelle, meno note, brasiliane e messicane, abbiamo già parlato in un reportage su Rassegna sindacale). Insieme a loro, lavoratori “recuperati” dalla Grecia (la Vio.Me di Salonicco) e dall’Italia (la Ri-Maflow di Milano e Officine Zero di Roma) si sono confrontati sulle diverse esperienze. Come si fa a mantenere in piedi un posto di lavoro se i padroni scappano e mancano i capitali? Con quale modello di gestione? In che modo si può riconvertire la produzione? Come si aprono nuovi spazi di mercato?

Nel panorama europeo, a detta di tutti l’Italia è il paese più avanzato. Grazie a una legge del 1985, la Marcora, che prevede facilitazioni per le fabbriche che vogliono ripartire, alla diffusione del sistema cooperativo, soprattutto in Toscana ed Emilia Romagna, con la Legacoop che fin dagli anni 90 ha aiutato il recupero e la trasformazione di aziende in crisi (con un fondo dedicato, Coopfond, e il sostegno di istituti di credito come la Banca Etica e l’Unipol), e grazie alla sperimentazione, fin dalla fine degli anni 60, di modelli autogestionali (famoso è il caso della Apollon sulla via Tiburtina a Roma, immortalata in un film da Ugo Gregoretti). Tanto che, a oggi, nel nostro paese si contano almeno 36 fabbriche recuperate, quasi tutte con il tradizionale modello cooperativo, al quale si passa dopo un periodo di autogestione (durante l’occupazione delle strutture). Quella che è mancata finora, semmai, è la sponda istituzionale e una politica industriale che guardasse alle possibilità concrete di recupero di aziende chiuse non per demeriti particolari o perché decotte, ma semplicemente per scelte padronali o avventurismi di vario genere.

Ma torniamo in Francia, dove la battaglia della Fralib è stata portata avanti, in parallelo, sul luogo di lavoro, a livello istituzionale e perfino in tribunale, con l’obiettivo, in quest’ultimo caso, di conservare il marchio Elephant, dichiarato dalla municipalità marsigliese (una sorta di provincia) “prodotto tipico regionale” e in quanto tale preesistente alla multinazionale. Fino all’ultima iniziativa: il boicottaggio dei prodotti Unilever. Tutti, non solo il tè Lipton e le tisane con il marchio Elephant, attraverso una capillare campagna di informazione e il sostegno di una rete di attivisti sociali che presto hanno esondato dal territorio nazionale.

Alla fine, dopo tre anni e mezzo, è arrivata la svolta, sotto forma di un accordo al ministero del Lavoro francese tra gli operai, i sindacati, la multinazionale e il governo. La Unilever pagherà 19,1 milioni di euro per i danni causati dallo stop all’azienda, mentre i terreni e i macchinari, valutati altri sette milioni, saranno trasferiti alla cooperativa messa in piedi dai lavoratori. In totale fanno oltre 26 milioni di euro, ai quali andrà sommato il sostegno della multinazionale alla vendita dei prodotti della Fralib attraverso i loro canali distributivi, almeno nella prima fase.

Una vittoria su tutta la linea,
affatto scontata di questi tempi, che se non è riuscita a fermare i processi di delocalizzazione (per quello sarebbe necessaria una politica industriale europea, secondo i socialisti), quanto meno ha avuto il merito di far risorgere il lavoro laddove sembrava fosse definitivamente venuto meno. “Tutti ci dicevano che eravamo pazzi a scagliarci contro dei miliardari, ma la nostra follia alla fine ha pagato”, ha commentato un lavoratore. Ora si pensa già a come ripartire. Settantasei ex lavoratori della Fralib (sui 180 che la fabbrica contava al momento della chiusura) hanno costituito una cooperativa che si chiama Thé et infuses e stretto accordi con produttori locali di erbe biologiche. Non si useranno più gli aromi artificiali e gli additivi chimici con i quali l’azienda aveva sostituito i prodotti naturali per risparmiare sui costi e che alla Fralib conservano ancora in un capannone, ma la produzione sarà di grande qualità: le tisane al tiglio, gli infusi alla lavanda provenzale, il mate. “Il nostro progetto è di fare il contrario dell’Unilever: un commercio responsabile. Vogliamo dimostrare di essere capaci di gestire questo sito in maniera alternativa, se così non fosse avremmo buttato via tre anni della nostra vita”, dice Hassani. Quindi, non solo non licenzieranno nessuno in futuro, ma avranno una diversa gestione dei tempi e un’organizzazione del lavoro che definiscono “eco-solidale”, tutta da sperimentare. Loro la sintetizzano in questo modo: “Vuol dire che se hai un operaio che ha lavorato per tanti anni qui non lo elimini solo perché non serve”.

Gli operai ricapitalizzeranno la società
investendo una parte della liquidazione, e anche i soldi della Unilever serviranno a ripartire, oltre che a finanziare la formazione dei lavoratori stessi e una ricerca di mercato. La multinazionale aiuterà anche la nuova società a muovere i primi passi sul mercato. Rimane sospesa la questione del marchio. È un’impresa ancora più difficile, quest’ultima, perché le norme sulla proprietà privata lasciano pochi margini di manovra. Intanto, i “fralibiens” si godono la vittoria, preparano una grande festa e si attrezzano a ripartire senza padroni.