Il coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale è un complesso di regole e principi comuni stabilito dall'Unione europea, cui tutte le autorità nazionali, enti previdenziali e tribunali devono attenersi, affinché le persone non perdano i loro diritti in materia di previdenza sociale quando si spostano da uno Stato membro all’altro, per motivi di lavoro, studio, pensionamento, ricerca di impiego o anche semplicemente per un soggiorno temporaneo.

È un sistema antico quanto la stessa Comunita economica europea. È stato, anzi, il suo primo atto giuridico emanato dopo il Trattato di Roma. Stabilito appena il regime linguistico e lo statuto dei funzionari europei, il 25 settembre 1958 il Consiglio della nascente Cee adottò il primo regolamento per la sicurezza sociale dei lavoratori migranti. Il Consiglio era formato allora dai rappresentanti dei governi dei sei Paesi fondatori, Belgio, Francia, Repubblica federale tedesca, Italia, Lussemburgo e Paesi Bassi, e il Trattato di Roma era in vigore da neanche dieci mesi.

Oggi come ieri, il coordinamento è ancorato a quattro principi fondamentali, il cui obiettivo è fare in modo che “i lavoratori migranti non debbano né perdere i diritti alle prestazioni di previdenza sociale, né subire una riduzione dell’importo delle stesse per il fatto di aver esercitato il diritto alla libera circolazione che è loro conferito dal Trattato” (Corte di giustizia dell’Ue). Quali sono questi principi fondamentali? Proviamo di seguito a chiarirlo.

Unicità della legislazione applicabile: si è soggetti alla legislazione di un solo Paese, generalmente quello in cui si esercita l’attività professionale. Parità di trattamento: ogni persona che risiede sul territorio di uno Stato membro è soggetta agli stessi doveri e agli stessi diritti dei cittadini nazionali di tale Stato membro. Conservazione dei diritti acquisiti: la possibilità di “esportare” alcune prestazioni in denaro cui la persona aveva diritto già prima di spostarsi in un altro Paese. Conservazione dei diritti in corso di acquisizione: in altre parole, la possibilità di “totalizzare” i periodi assicurativi, di residenza o di lavoro, maturati in uno Stato membro, ai fini della determinazione di un diritto in un altro Stato membro.

Attorno a questi quattro principi, le disposizioni sul coordinamento si sono evolute nel tempo, e riguardano oggi quasi tutte le prestazioni della previdenza sociale in tutti gli Stati membri dell'Unione europea, e anche in Norvegia, Islanda e Liechtenstein (accordo sullo Spazio economico europeo) e nella Confederazione svizzera (accordo Ue-Svizzera). Ogni cambiamento è stato però oggetto di complesse previsioni e lunghi negoziati. Già negli anni sessanta ci si rese conto che i primi regolamenti lasciavano in ombra molte zone e, appena cinque anni dopo la loro introduzione, Commissione europea e Stati membri stavano già lavorando alla loro revisione. Dopo lunghe e difficili negoziazioni tra i governi, il 14 giugno 1971 il Consiglio adottò quindi il regolamento 1408/71, che, seguito un anno dopo dal suo regolamento d’attuazione, resterà stavolta in vigore quasi quarant'anni.

Un altro cambiamento importante si è avuto nel 2003, quando la tutela dei diritti previdenziali dei lavoratori migranti – fino a quel momento riservata ai soli cittadini europei – è stata estesa ai lavoratori di paesi terzi, ossia non dell’Ue. Dopo un altro lungo periodo di negoziati tra gli Stati membri, durato più di sette anni, il 1° maggio 2010 è entrata in vigore la terza generazione di regolamenti sul coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale, che ha integrato in un solo testo (più di 200 pagine) le oltre 300 modifiche che erano state via via apportate dopo il 1971, per via legislativa o giurisprudenziale.

L'obiettivo dichiarato è rendere le procedure più semplici e veloci nell’erogazione delle prestazioni sociali. Restano i quattro principi di base, parità di trattamento, unicità della legislazione applicabile, esportabilità di talune prestazioni e totalizzazione dei periodi assicurativi, ma con alcune novità importanti, quali l'estensione del campo di applicazione a tutte le persone assicurate, compresi studenti, pensionati e altre categorie di popolazione non attiva, la presa in considerazione di nuove prestazioni, come prepensionamento e paternità, i pagamenti di prestazioni provvisorie in caso di disaccordo tra le istituzioni. I nuovi regolamenti intervengono anche sull'organizzazione delle transazioni tra gli organismi di previdenza nazionali, introducendo lo scambio elettronico delle informazioni e un principio detto di “buona amministrazione”.

Ora, in confronto a quanto deciso, in due soli giorni, dai capi di Stato e di governo riunitisi a Bruxelles il 18 e il 19 febbraio scorsi, i cambiamenti introdotti dai regolamenti del 2010 sembrano una bazzecola. In un’atmosfera dominata dall'esigenza di trovare un’intesa con il Regno Unito e dalla crisi migratoria e dei rifugiati in corso, il Consiglio europeo ha in due giorni convenuto un insieme di disposizioni, considerate come “pienamente compatibili con i trattati”, che prenderanno effetto alla data in cui il governo del Regno Unito – espletato il referendum – informerà il Consiglio della sua decisione di restare membro dell'Unione europea.

Queste disposizioni, per semplificare, possiamo riunirle in due sottoinsiemi. Da un lato, un insieme di misure di governance, destinate a soddisfare le richieste di Cameron quanto al ruolo e al peso del Regno Unito nell'Unione. In seguito a intensi negoziati, i leader dell'Ue hanno quindi raggiunto un'intesa che rafforza lo status speciale del Regno Unito, conferendogli maggiore peso quanto alla governance economica (gestione dell'unione bancaria e ulteriore integrazione della zona euro) e maggiori margini invece di libertà quanto alla sovranità (meno vincoli per il Regno Unito in rapporto a un'ulteriore integrazione politica nell'Unione). Dall’altro lato, una serie di misure che non è esagerato definire epocali, tese a frenare il cosiddetto “abuso del diritto di libera circolazione delle persone”, e riguardanti più precisamente gli assegni per i figli a carico e le “prestazioni a carattere non contributivo collegate all'esercizio di un'attività lavorativa”.

Indicizzazione delle prestazioni per i figli a carico 
Per quanto riguarda le prestazioni familiari per figli a carico, i leader europei hanno deciso che la Commissione elaborerà presto una proposta di modifica del regolamento 883/2004 sul coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale, al fine di offrire agli Stati membri la possibilità di indicizzare l’importo delle prestazioni per figli a carico residenti in uno Stato membro diverso da quello in cui il genitore lavoratore soggiorna, adeguando tali prestazioni alle condizioni (costo della vita) dello Stato membro in cui risiedono i figli.

In pratica, se secondo le regole attualmente in vigore – anzi, in vigore da più di mezzo secolo – il famoso operaio polacco che lavora in Germania riceve i medesimi assegni familiari che i suoi colleghi tedeschi, e questo indipendentemente dal paese di residenza dei figli, con le nuove regole l’assegno per i figli residenti in Polonia sarà indicizzato al costo della vita in Polonia, anche se il lavoratore ha un salario tedesco, e versa quindi nelle casse fiscali e previdenziali della Germania gli stessi importi dei lavoratori nazionali.

In un primo tempo, ciò dovrebbe applicarsi soltanto alle nuove richieste fatte dai lavoratori dell'Ue nello Stato membro ospitante, non sarebbe cioè retroattivo. Tuttavia, a decorrere dal 1° gennaio 2020, tutti gli Stati membri possono estendere a tutti i lavoratori stranieri l'indicizzazione delle prestazioni per figli a carico già esportate in un altro paese dell'Ue. La Commissione rassicura, per il momento, che “non intende proporre l'estensione del futuro sistema di indicizzazione facoltativa delle prestazioni per figli a carico ad altri tipi di prestazioni esportabili, come le pensioni di vecchiaia”.

Detto così, sembrerebbe che le misure invocate siano solo, come dire, degli aggiustamenti. In realtà, esse mettono in discussione i pilastri della libera circolazione delle persone e del coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale. Simili restrizioni erano del resto state già introdotte in passato da alcuni Stati membri, come il Lussemburgo nel 2000. Ma nel 2013 la Corte di giustizia dell'Unione europea ne aveva ordinato il ritiro, ricordando appunto che i lavoratori migranti “godono degli stessi vantaggi fiscali e sociali che i lavoratori nazionali” (articolo 7.2 del regolamento Ue 492/2011, relativo alla libera circolazione dei lavoratori).

Limitazione dell’accesso alle prestazioni a carattere non contributivo collegate all'esercizio di un'attività lavorativa 
Con il pretesto di “tener conto del fattore di attrazione costituito dal regime di uno Stato membro”, il Consiglio europeo ha anche approvato una proposta di modifica delle norme europee relative alla libera circolazione dei lavoratori, garanti fino a oggi della parità di trattamento. In pratica, il Consiglio ha ideato un cosiddetto “meccanismo di allerta e salvaguardia” che dovrebbe far fronte a ipotetiche “situazioni di afflusso di lavoratori provenienti da altri Stati membri di portata eccezionale”. Uno Stato membro che desideri avvalersi di questo meccanismo notificherebbe alla Commissione e al Consiglio l'esistenza di una siffatta situazione eccezionale, di entità tale – si badi bene - da “ledere aspetti essenziali del suo sistema di previdenza sociale”.

Tale Stato membro sarebbe così autorizzato (con buona pace del Parlamento europeo, che non viene neppure consultato) a limitare l'accesso dei lavoratori nuovi arrivati alle “prestazioni a carattere non contributivo collegate all'esercizio di un'attività lavorativa” per un periodo totale di massimo quattro anni dall'inizio del rapporto di lavoro. La limitazione dovrebbe essere regressiva, evolvendo da una completa esclusione iniziale a un accesso gradualmente crescente a tali prestazioni, per tener conto del crescente collegamento del lavoratore con il mercato del lavoro dello Stato membro ospitante. L'autorizzazione avrebbe durata limitata e si applicherebbe ai lavoratori nuovi arrivati nell'Ue per un periodo di sette anni.

Ma di cosa si tratta, esattamente? Nel Regno Unito, per fare un esempio, esistono due prestazioni destinate a compensare la perdita di reddito per i lavoratori disoccupati. La prima, di tipo contributivo, è condizionata come consuetudine al versamento di un certo numero di contributi assicurativi in un determinato lasso di tempo, e dura al massimo sei mesi. Scaduti i sei mesi, una seconda prestazione, assistenziale e non previdenziale, può essere erogata in funzione delle condizioni di reddito, ossia di bisogno. Questa seconda prestazione spetta, di norma, anche a coloro che, pur essendo disoccupati, non hanno diritto alla prima prestazione contributiva, in ragione – solo per dirne una – di una carriera lavorativa breve e frammentata. Ecco, è questa seconda prestazione che potrà essere negata ai lavoratori cittadini di un altro Stato europeo, anche se questi – non è inutile precisarlo – contribuiscono alle casse fiscali e previdenziali come gli altri lavoratori nazionali.

Se l’effetto demagogico di una misura è più importante della sua efficacia 
Va subito detto che, oltre a fare a pugni con decenni di giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, la premessa stessa su cui si basa l’accordo – ossia l’esistenza di “flussi di lavoratori di ampiezza tale da produrre effetti negativi sia per gli Stati membri di origine che per quelli di destinazione” – è smentita da tutte le analisi e da tutti gli studi finora conosciuti, compresi quelli della Commissione europea e dell’Ocse.

L’applicazione eventuale di simili regole restrittive avrebbe insomma solo un effetto demagogico. Il reale impatto sulle finanze sarebbe infatti trascurabile. Nel Regno Unito, le prestazioni familiari versate per figli di lavoratori stranieri residenti all’estero, sono un numero insignificante: meno del 0,3% secondo uno studio pubblicato in questi giorni. Nel 2013, su 7,5 milioni di famiglie che hanno percepito assegni per figli a carico, per una spesa complessiva pari a 11,5 miliardi sterline, appena 20mila hanno bambini residenti all’estero. In pratica, 34mila bambini su 13 milioni. In Germania, per fare un altro esempio, dei 14 milioni di bambini aventi diritto alle prestazioni familiari, solo lo 0,6% vive all'estero.

Una comunicazione della Commissione europea del 25 settembre 2014 mostra, cifre alla mano, come la popolazione “straniera” versa nelle casse dei paesi ospitanti, sotto forma di imposte e contributi,  più di quanto non riceva sotto forma di prestazioni e aiuti vari. Queste affermazioni si basavano su un rapporto condotto per conto della stessa Commissione europea nel 2013, teso proprio a valutare l’impatto economico delle prestazioni non contributive versate ai migranti. Lo stesso studio dimostra anche come, tra i beneficiari delle prestazioni sociali, la presenza degli stranieri sia in realtà molto bassa: meno dell’1% in Austria, meno del 5% in Germania e Paesi Bassi. E per quanto riguarda la spesa nazionale per l'assistenza sanitaria, il costo attribuibile alla popolazione straniera è solo lo 0,2% in media.

In riferimento proprio al Regno Unito, uno studio dell'University College di Londra del novembre 2014, basato su dati ufficiali del governo, ha confrontato il contributo fiscale netto a quello dei vari gruppi di immigrati. Negli anni tra il 1995 e il 2011, il contributo fiscale netto degli stranieri europei è stato superiore a quello dei cittadini britannici, per oltre il 10%. Un altro studio, pubblicato nel giugno 2014 da Iza World of Labor, mostra come le singole decisioni in materia di immigrazione non siano prese sulla base della relativa generosità dei sistemi sociali del paese ospitante. Al contrario, anche di fronte a un rischio più elevato di povertà, gli immigrati – anche quelli cittadini Ue – mostrano meno dipendenza dal welfare rispetto ai cittadini nazionali.

In breve, ancora una volta gli immigrati versano nelle casse dello Stato ospitante più di quanto ricevono. E anche quando beneficiano del welfare più intensamente dei cittadini nazionali, questo è dovuto alle differenze sociali, piuttosto che allo status di immigrazione di per sé. Il mito, insomma, dell’immigrazione che approfitta della generosità dei sistemi sociali dei paesi ricchi è ampliamente smentito dalle statistiche internazionali. È, per l’appunto, un mito. Non solo. Anche secondo il Rapporto Ocse 2013 sulle migrazioni internazionali, la differenza tra i contributi sociali e fiscali versati dagli immigrati e le prestazioni da questi percepite è sempre a vantaggio dei paesi ospitanti e a discapito dei migranti.

Come abbiamo già detto, agli occhi di un osservatore distratto tali cambiamenti potrebbero sembrare soltanto degli aggiustamenti, dettati persino dal buon senso: lotta alle frodi e agli abusi, adeguamento delle prestazioni al costo della vita ecc. In realtà, e come l’ha detto schiettamente il vicepresidente della Commissione europea, si vuole separare l’accesso al mercato del lavoro e l’accesso alla protezione sociale. E se un tale principio viene accettato oggi nei confronti di “stranieri” e “migranti”, non è difficile immaginare che in seguito lo stesso potrà essere applicato a tutti gli altri lavoratori.

Carlo Caldarini è direttore dell’Osservatorio Inca Cgil per le politiche sociali in Europa