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Basandosi sugli ultimi dati relativi ai differenziali retributivi, la Commissione europea ha di recente stabilito che il 3 novembre rappresenta l’Equal pay day, la Giornata europea per la parità retributiva, dal momento che, a causa della minore retribuzione di cui beneficiano rispetto agli uomini, da tale data, per il resto dell’anno, le donne europee risultano lavorare gratuitamente rispetto ai colleghi.
Il primo vicepresidente della Commissione Frans Timmermans e le commissarie Marianne Thyssen e Věra Jourová hanno, a questo proposito, dichiarato: “Donne e uomini sono uguali: questo è uno dei valori fondanti dell’Ue, anche se, di fatto, per due mesi all’anno le donne ancora lavorano gratis rispetto ai colleghi uomini. È una situazione che non possiamo più accettare. In Europa le donne guadagnano il 16,2% in meno degli uomini: un divario retributivo iniquo non solo in sé, ma anche all’atto pratico, poiché pone le donne in situazione di precarietà nel corso della loro carriera professionale e ancor di più dopo il pensionamento, quando le differenze rispetto alle pensioni degli uomini diventano del 36,6%”.
Anche se non c’è una soluzione immediata per correggere tale disparità, “realizzare un cambiamento concreto – proseguono Timmermans, Thyssen e Jourová – è in qualche modo possibile. Per affrontare il problema delle disparità nel mondo del lavoro e a casa, la Commissione ha presentato numerose proposte. È ora urgente che il Parlamento europeo e il Consiglio le portino avanti per ottenere risultati concreti, per esempio, migliorando il diritto – per i genitori che lavorano e per chi presta assistenza ai familiari svolgendo, in parallelo, un’attività lavorativa – di usufruire di un congedo per aiutare la propria famiglia. Nuovi dati pubblicati oggi sottolineano quanto sia importante adottare urgentemente le norme sull’equilibrio tra attività professionale e vita familiare proposte dalla Commissione europea. L’anno scorso un cittadino europeo su tre non è riuscito a usufruire di alcun congedo per motivi di famiglia e solo quattro uomini su dieci hanno preso un congedo parentale (o hanno manifestato l’intenzione di prenderlo): questo non è né giusto, né sostenibile”.
UN Women ha lanciato la campagna #StopTheRobbery, definendo la disuguaglianza salariale a svantaggio delle donne nel mondo una vera e propria rapina più precisamente: the biggest robbery in history. E in Italia esiste un differenziale salariale a svantaggio delle donne? In che giorno dell’anno le donne cominciano a lavorare gratuitamente? Il calcolo che conduce a fissare per l’Europa l’Equal pay day il 3 novembre viene fatto alla luce del divario retributivo di genere “non corretto” – ovvero, senza tenere conto dei fattori che lo influenzano, quali il livello di istruzione, l’esperienza lavorativa, le ore lavorate, il tipo di attività svolta, il settore di attività – calcolato dall’Eurostat sulla base dei dati dell’indagine sulla struttura delle retribuzioni (Structure of earnings survey-Ses).
Ebbene, il divario retributivo di genere “non corretto” calcolato dall’Eurostat per l’Italia è 5,3%, quindi inferiore a quanto riscontrato in media in Europa, il 16,2%, su cui si basa l’individuazione dell’Equal pay day. Quindi, sulla base di questo indicatore possiamo concludere che le donne italiane stanno meglio di quelle europee? Per rispondere allarghiamo lo sguardo anche ad altre dimensioni e dati statistici.
Da Vilnius, dove dal 2006 è stato istituito dal Consiglio europeo l’Istituto europeo per l’uguaglianza di genere (European institute for gender equality, Eige) giungono dati non molto incoraggianti per le donne italiane. Un primo indicatore proviene dall’Indice di eguaglianza di genere (Gender equality index, Gei), costruito attorno a più dimensioni e tale da fornire ai singoli Paesi un’indicazione chiara, anche rispetto agli altri Stati europei, delle aree nelle quali si è più distanti dall’obiettivo di eguaglianza. L’aggregazione degli indicatori calcolati per ogni dimensione consente di ottenere una misura sintetica dell’eguaglianza di genere in Europa.
Il campo di variazione dell’indice è compreso fra 1 (massima diseguaglianza di genere) e 100 (massima eguaglianza). L’indice nel 2015 è pari a 66,2 come media Ue-28 e a 62,1 per l’Italia. Una distanza ancora più grande si registra proprio nel dominio del lavoro (che include gender gap nel tasso di occupazione part time, durata della vita lavorativa, segregazione occupazionale, qualità del lavoro e prospettive di carriera). In questo dominio, la media Ue-28 dell’indice è pari a 71,5, mentre in Italia è pari a 62,4, il valore più basso nell’ambito dei Paesi europei.
E prima ancora di misurare il divario nel mercato del lavoro vediamo come sta l’Italia in termini di accesso allo stesso. Per questo utilizziamo i dati Eurostat sui tassi di attività che rapportano il numero di attivi (occupati o disoccupati) sul totale della popolazione in età lavorativa. Questo indicatore segnala una situazione molto critica per il nostro Paese, che si caratterizza per il livello più basso dei tassi di attività femminili in Europa. Nel 2016 è pari al 55,2%, contro il 67,3% in media nell’Ue-28. Il tasso di attività femminile italiano è anche inferiore a quello dei paesi del Sud Europa. Il differenziale nei tassi di attività fra uomini e donne, pur ridotto rispetto al 2007 (quando era pari a 24 punti percentuali), è attualmente pari a circa 20 punti percentuali e risulta anch’esso più elevato della media europea.
Ma quante, fra coloro che offrono il proprio lavoro sul mercato, poi risultano occupate? Esiste anche in questo caso un differenziale di genere? Nel 2017 il tasso di occupazione femminile è pari al 48,9% fra le donne in età lavorativa e al 67,1% per gli uomini; un divario di genere, pari a 18,2 punti percentuali, che aumenta quanto più basso è il livello di istruzione, passando da 10,7 punti percentuali per le persone in possesso di laurea (o più elevato titolo di studio) a 25 punti percentuali per chi ha un titolo di studio pari o inferiore alla licenza media inferiore. Il divario di genere risulta poi particolarmente elevato al Sud (24 punti percentuali)
Fra gli indicatori che misurano le diseguaglianze nel mercato del lavoro l’Istituto europeo per l’uguaglianza di genere considera anche le prospettive di carriera. In tale ambito, alle disuguaglianze nell’accesso al mercato del lavoro si aggiungono quelle riguardanti la specifica possibilità di raggiungere posizioni apicali. Nel 2015 l’incidenza dell’occupazione femminile nelle posizioni manageriali è stata del 26,6%, di molto inferiore a quella relativa alla complessiva occupazione (42,1%). In Italia la sotto-rappresentazione delle donne nelle posizioni manageriali risulta maggiore rispetto alla media Ocse e a un gran numero di Paesi, tra cui – in particolare – quelli scandinavi e gli Stati Uniti.
Prendendo atto delle diverse diseguaglianze di genere esistenti nel mercato del lavoro, Eurostat ha introdotto un nuovo indicatore, il gap di genere complessivo, un indicatore sintetico che misura il divario fra uomini e donne nelle seguenti dimensioni: il salario orario medio; il numero medio di ore di lavoro retribuite; il tasso di occupazione. Considerando i tre elementi, l’Italia risulta caratterizzata da un gap di genere del 43,7%, contro una media europea di 39,6%. Ma torniamo al punto di riflessione iniziale. Davvero le donne italiane stanno meglio rispetto alla media europea in termini di differenziali salariali?
Si possono esprimere alcune criticità nell’utilizzo del differenziale retributivo “non corretto”. Da un lato, tale differenziale non tiene conto dei fattori che lo influenzano, quali il livello di istruzione, l’esperienza lavorativa, le ore lavorate, il tipo di attività svolta, il settore di attività e, dall’altro, anche quando si calcola il differenziale netto basandosi unicamente sugli occupati, si può affermare che il risultato è distorto, perché non tiene conto della selezione non casuale delle donne che lavorano, e del loro maggiore grado di istruzione.
Il problema è ancora più rilevante nel nostro Paese, dove le differenze nelle caratteristiche delle occupate rispetto alla popolazione femminile in età lavorativa generano un problema di selezione non casuale nella stima dell’equazione salariale basata unicamente sul dato relativo agli occupati e quindi nella determinazione del differenziale salariale di genere (Olivetti e Petrongolo, “Unequal pay or unequal employment? A cross-country analysis of gender gaps”, Journal of Labor Economics, 2008).
Prendendo atto del minore accesso delle donne italiane al lavoro retribuito riflesso nel differenziale retributivo stimato con tecniche micro econometriche più appropriate, l’Equal pay day per le donne dai 25 ai 55 anni di età in Italia è già passato, era il 28 ottobre. Sarebbero dunque 66 i giorni in cui le donne lavorano gratis rispetto agli uomini. Limitandosi al differenziale salariale netto calcolato senza tenere conto della selezione non casuale delle occupate, la durata del lavoro gratuito per le donne si riduce e passa a 33 giorni, con un Equal pay day a fine novembre. La differenza, nel calcolo del gender pay gap, si accentua ancora di più nelle regioni in cui è ancora minore il tasso di occupazione femminile, passando dal 7% al 38% nel Sud e dall’11% al 21% nel Nord.
Tindara Addabbo è professoressa associata presso il Dipartimento di Economia Marco Biagi, Università di Modena e Reggio Emilia