Osservando le dinamiche di lungo periodo si possono distinguere in Emilia Romagna tre differenti periodi: un primo, di espansione, proprio degli anni compresi fra il secondo dopoguerra e gli anni settanta; un secondo periodo di leggera riduzione dagli anni ottanta fino alla prima metà degli anni Novanta; e infine una nuova crescita, prima lenta e poi più consistente, dalla seconda metà degli anni novanta a oggi. In quest’ultima fase, l’aumento della popolazione residente è da attribuirsi principalmente al fenomeno migratorio, dato che il saldo naturale (nascite-decessi) continua a rimanere negativo anche per tutti gli anni Duemila.

Non solo. Mentre fino ai primi anni Duemila il saldo migratorio deriva principalmente dai movimenti di segno positivo con le altre regioni italiane (in particolare con quelle dell’Italia centro-meridionale), a partire dal 2003 sono i saldi migratori esteri a divenire la principale fonte di crescita. Questi saldi migratori positivi denotano l’elevata capacità attrattiva dell’Emilia Romagna, elemento di grande forza per la regione. L’accesso di persone di giovane età da altre regioni italiane e, soprattutto, dall’estero, ha accresciuto l’ammontare e l’incidenza delle fasce di età in cui la popolazione emiliano-romagnola era più debole, riducendo così i problemi di invecchiamento, ricambio generazionale, dipendenza e, più in generale, gli squilibri demografici prodotti nei decenni passati.

Il quadro è tuttavia mutato radicalmente con l’inizio della crisi. Gli ultimi dati disponibili sulla popolazione residente in Emilia Romagna – che al 1° gennaio 2015 ammonta a 4.457.115 residenti – confermano anche per il 2015 un processo di decrescita demografica e di progressivo abbandono del territorio. Come si può vedere dal grafico successivo, dal 2009 al 2015 la popolazione residente ha fatto registrare tassi di crescita sempre più bassi, fino a entrare nel 2014 in un terreno negativo, con un calo dello 0,41%, pari a 18.322 residenti persi in un solo anno.

Una diminuzione della popolazione residente non si registrava dal 1995. La tendenza non sembra cambiare nel 2015, quando si registra un esiguo aumento dello 0,1%, da interpretare probabilmente più come un rimbalzo congiunturale al calo appena descritto per l’anno 2014 che come un’effettiva ripresa della crescita demografica.

Nel biennio 2011-2012 Ferrara era l’unica provincia dell’Emilia Romagna a far registrare una variazione negativa, seppur di sole 308 unità. Il 2014 ha sancito di contro l’inversione di rotta per tutta la regione. Tutte le province hanno registrato un decremento della popolazione residente, con particolare evidenza nei territori di Ferrara, Piacenza e Parma (rispettivamente, con un calo dello 0,78% 0,68 e 0,66%). Completamente riassorbito quindi anche l’effetto crescita rilevato per la provincia di Rimini, il cui dato (+12,9%) aveva risentito dell’entrata nei confini amministrativi della provincia dei sette comuni dell’Alta Valmarecchia, precedentemente compresi nel territorio regionale delle Marche. In particolare, continua a diminuire la popolazione delle zone di montagna, che dal 2013 al 2015 perde altri 3.667 residenti (pari a un calo dell’1,9%), mentre il trend più positivo è quello delle zone collinari.

Si conferma, inoltre, il processo di ri-urbanizzazione in atto già dal 2007. L’analisi comunale dei trend conferma, infatti, come le variazioni negative si siano registrate solo nei comuni che al 2007 avevano meno di 15mila residenti. Per i comuni più grandi di contro si sono registrate variazioni positive. A esclusione dei capoluoghi di provincia, tutti in aumento, si segnalano significative crescite per i comuni di Castelfranco Emilia (+14,6%), Correggio (+12,7), Zola Pedrosa (+11,1%), Vignola (+9,7%) e Cento (+9%). E continua ad aumentare anche l’incidenza dei residenti con più di settant’anni di età (17,49%), andamento questo che trova spiegazione nel progressivo allungamento della vita media. Tale aumento è, anche nel 2015, più evidente per la componente femminile, dove la quota sale al 19,86% (cinque punti percentuali superiore a quella maschile), dato in ulteriore crescita rispetto  al 2007 (19,52%).

Confrontando la piramide dell’età presentata in figura 1.2 si nota inoltre un progressivo invecchiamento della popolazione in età lavorativa (periodo 2007-2015), i cui contingenti continuano a slittare verso le fasce più anziane della popolazione. Aumenta il peso della popolazione compresa tra i 50-64 anni, che passa dal 2007 al 2015 dal 18,79% al 20,16% del totale, mentre diminuisce quella degli under 35, senza che vi siano contingenti di giovani che vadano a rimpiazzare la popolazione in età lavorativa. Tale tendenza è confermata anche dai dati più recenti sul tasso di fecondità, che dal 2011 al 2014 continua a diminuire sia a livello regionale che nazionale (rispettivamente dall’1,50% all’1,45% e dall’1,45% al 1,39%).

Il fatto è che la fascia di popolazione anziana (64 e oltre) ha registrato nel corso degli ultimi decenni un progressivo ampliamento, tanto che l’incidenza percentuale di quest’ultima sul totale della popolazione residente è passata dal 19,3% del 1991 al 22,8% del 2007, data di inizio della crisi, fino ad arrivare al 23,4% nell’ultima rilevazione disponibile (2015). Dopo un decennio (2001-2011) dove la crescita della popolazione più giovane aveva comunque compensato l’espansione di quella anziana, determinando la flessione di questo indicatore, a partire dal 2011 si segnala una nuova e costante crescita dell’indice di vecchiaia, che si attesta così al 1° gennaio 2015 a 173,4. L’indicatore era pari a 165 nel 1991, ed era cresciuto quasi fino a 194 nel 2001, per poi scendere nel decennio successivo. Rispetto al livello medio regionale, si ravvisano situazioni più critiche in primis nella provincia di Ferrara (240,9), ma anche a Piacenza (192), Ravenna (189,5) e Bologna (185,2).

Il processo di invecchiamento è facilmente leggibile anche attraverso l’indice di ricambio della popolazione attiva, dato dal rapporto percentuale tra popolazione di 60-64 anni e quella di età compresa fra i 15-19 anni. L’indicatore permette di leggere il rapporto fra quanti sono prossimi a lasciare il mondo del lavoro e quanti stanno potenzialmente per entrarci. In altri termini, è il rapporto percentuale tra la popolazione potenzialmente in uscita dal mondo del lavoro e quella potenzialmente in entrata. Valori distanti dalla condizione di parità indicano in ogni caso una situazione di squilibrio: indici molto al di sotto di 100 possono indicare minori opportunità per i giovani in cerca di prima occupazione, mentre valori molto superiori a 100 implicano anche una difficoltà a mantenere costante la capacità lavorativa di un paese. Il dato medio regionale, al 1° gennaio 2015, risulta pari a 141,2, ma risulta decisamente più elevato per Ferrara (191), seguita da Ravenna (149,7) e da Bologna, che si attesta a 147,5.

L’indice di dipendenza totale, calcolato come rapporto fra le persone in età non attiva (0-14 anni e oltre 64 anni) e 100 persone in età attiva (15-64 anni) considera, al denominatore, la fascia di popolazione che dovrebbe provvedere al sostentamento della fascia posta al numeratore; rappresenta pertanto un valido strumento per studiare gli scenari futuri dell’intero sistema socio-economico locale e la sua sostenibilità. Il dato regionale al 1° gennaio 2015 fa registrare per questo indicatore valori pari a 58,5, circa 59 persone in età non lavorativa quindi per ogni 100 in età lavorativa; in netto incremento rispetto agli anni novanta (44,9 nel 1991), ma anche rispetto agli anni più recenti. Insomma, anche dal punto di vista demografico la crisi sta inducendo molti cambiamenti. In qualche caso si tratta di accelerazioni di processi già in corso, in altri di un vero e proprio rovesciamento di trend decennali. Siamo comunque di fronte a indicatori di profonde trasformazioni sociali, che sarebbe un grave errore sottovalutare.