Durante un viaggio nel depresso Midwest americano, un attivista mi mostrò una carta degli Stati Uniti. La carta rappresentava le traiettorie migratorie dei tanti giovani di Youngstown – questo il nome della città dell’Ohio in cui mi trovavo – che ogni anno la abbandonano alla volta di qualche metropoli del paese. Sulla mappa, New York, Los Angeles e Chicago – fra le altre – erano indicate da grandi cerchi di un rosso intenso. Non si trattava di una banale rappresentazione del numero dei loro residenti. Più grosso il cerchio, più elevato era il numero di giovani youngstowner che vi si erano trasferiti. Lo chiamano il brain drain. E ne sono vittime tutti quei territori che si trovano in posizione subalterna rispetto alle aree metropolitane dove si concentrano le funzioni del terziario avanzato. Immaginatevi la stessa mappa in Italia. Al posto della triste e arruginita cittadina dell’Ohio ci sarebbero Salerno, Lecce, Reggio Calabria o Matera. Ma anche Napoli, Bari e Palermo. E al posto di Chicago e New York, ci sarebbero Milano, Roma, Bologna. La retorica nordista preferisce dimenticarlo. Ma per decenni l’economia del Centro-Nord è cresciuta anche grazie al costante rifornimento di una manodopera meridionale che aveva un costo relativamente basso ed era facilmente integrabile. Oggi dalle scatole di cartone si è passati alle Samsonite, gli espressi notturni sono quasi scomparsi ed al loro posto sfrecciano i treni dell’alta velocità ferroviaria e volano gli aerei delle compagnie low-cost. Infine, chi parte non ha licenze elementari bensì diplomi di laurea, se non master internazionali e dottorati di ricerca.

Le migrazioni interne – ora fiaccate da una recessione che sta facendo pagare quasi tutto il conto alle giovani generazioni – sono più vive che mai: nel 2008, circa 295.000 meridionali – di cui l’80% con meno di 45 anni – avevano cambiato residenza oppure rappresentavano i cosiddetti “pendolari a lungo raggio”. Considerate che, al picco della grande migrazione dell’era dell’industrializzazione, a emigrare erano 300.000 meridionali l’anno. Dati incredibili, di cui ovviamente giornali e televisioni non si occupano, e che sono invece discussi in un recente volume ad opera di due giovani ricercatori meridionali, Luca Bianchi e Giuseppe Provenzano (vedi Rassegna Sindacale, n. 30 del 29 luglio-4 agosto 2010). Dietro questa migrazione di massa, stanno centinaia di milioni di euro in investimenti – privati e molecolari - nella formazione delle nuove generazioni da parte delle famiglie di origine. Investimenti che migrano – dal Sud al Nord – assieme ai giovani che partono. In questo caso, ammesso che questa contabilità territoriale ora molto di moda abbia un senso, è il sud che dà al nord. E molto: in tasse universitarie versate alle università centro-settentrionali, in affitti e mutui che sostengono il mercato immobiliare nelle grandi concentrazioni metropolitane del Centro-Nord e, infine, in prezioso capitale umano – la gran parte delle volte precarizzato e non adeguatamente remunerato – indispensabile all’economia dei servizi di Milano, Torino, Bologna e Roma. E la società meridionale che, seppure nelle forme distorte del nostro familismo, tanto ha investito nella formazione di queste nuove generazioni si ritrova, alla fine del processo, ulteriormente impoverita.

Esperimenti pugliesi. Dal 2005 la nuova amministrazione regionale pugliese ha avviato qualche politica sperimentale. Ed irrituale. Programmi che intrecciano gli obiettivi di qualificare il capitale umano, trattenere ed impiegare i giovani, produrre beni pubblici locali in modo nuovo e rafforzare la democrazia locale, innovando l’azione e lo stile delle istituzioni. Nel quadro del programma “Bollenti Spiriti”, l’assessorato alle Politiche giovanili ha finanziato settantuno Laboratori urbani che hanno portato alla riqualificazione di circa 150 proprietà pubbliche su iniziativa diretta di gruppi di giovani che hanno ricevuto finanziamenti sia per la progettazione sia per la fase di start-up delle attività. I laboratori urbani hanno l’obiettivo di offrire attività culturali, servizi urbani innovativi e luoghi di aggregazione e di crescita civile prima inesistenti. Contestualmente, lo stesso programma invitava alcune migliaia di giovani pugliesi a firmare il cosiddetto Contratto Etico Giovanile, vale a dire l’erogazione di borse di studio e di ricerca da utilizzare entro e fuori i confini regionali e nazionali in cambio dell’impegno a ritornare poi in Puglia, per impiegare localmente le abilità ed il sapere acquisiti. Un altro assessorato – quello al Territorio – lanciava un bando per politiche di quartiere per la rigenerazione sociale e strutturale di molti quartieri in crisi. Alcuni dei Programmi Integrati di Riqualificazione delle Periferie (PIRP) sono da annoverare fra le più avanzate esperienze di partecipazione degli abitanti ai processi di rigenerazione urbana in Italia. Anche grazie all’azione del dipartimento alla Trasparenza e alla cittadinanza attiva, istituito dalla nuova amministrazione regionale. Si è trattato di piccoli progetti che, in diversi casi, sono però riusciti a creare dinamiche virtuose fra mobilitazione dei residenti, attivazione di competenze e professionalità dei giovani e innovazione dell’azione istituzionale. Possono sembrare politiche disparate. In realtà si tratta di interventi che, oltre ad avere costi di bilancio davvero trascurabili, hanno una forte e distinta filosofia di fondo. L’obiettivo – per riprendere l’espressione di un sociologo francese, Jacques Donzelot – è quello di fare società, laddove ve ne è più bisogno ma anche laddove le potenzialità appaiono più promettenti: ai margini della società meridionale, fra le nuove generazioni sottoimpiegate e nei territori urbani degradati.

Fare società nel Salento. A Lecce ho incontrato Juri Battaglini, uno degli attivisti del Laboratorio Urbano Aperto. Il Lua, nato nel 2005, si occupa di progettazione partecipata grazie a un’équipe multidisciplinare formata da architetti, urbanisti, sociologi e giornalisti. Qui sono tutti giovani e (quasi) tutti laureati – e in qualche caso addottorati – in un ateneo del Centro-Nord: Milano, Firenze, Siena. Molti dei progetti realizzati dal Lua – e dallo studio associato di progettazione in cui sono impegnati alcuni fra i suoi attivisti - sono scaturiti dalle nuove iniziative portate avanti dall’amministrazione regionale. A Tricase, Juri e i suoi colleghi hanno formato un gruppo di giovanissimi progettisti incaricati di realizzare – grazie ai fondi della citata iniziativa dei Pirp – un progetto di riqualificazione urbana disegnato nell’ambito di un serio e sofisticato processo di partecipazione. A Lecce, più recentemente, il Lua sta portando avanti un programma di rigenerazione – uno strumento di trasformazione urbana previsto dalla nuova legislazione regionale – nell’area di Via Leuca: anche qui la partecipazione è centrale, grazie alla mobilitazione di un’ampia rete di associazioni ed attori organizzati. E infine, grazie ad un’intuizione visionaria sviluppata assieme agli abitanti dei comuni interessati, un enorme uliveto inutilizzato – l’area dei Paduli – si trasformerà in un inusuale parco agricolo nel cuore del Salento. A Lecce un altro progetto, quello delle Manifatture Knos, non avrebbe visto la luce senza l’impegno di un gruppo di giovani, fra i quali – ancora una volta – alcuni che laureati e addottorati al Nord hanno poi deciso di ritornare. Michele Bee, uno dei promotori, mi accompagna negli spazi immensi di questa superba architettura industriale, ristrutturata grazie ai progettisti che animano il Lua. In quello che prima era un centro di formazione professionale dismesso ora ci sono studi di registrazione, spazi espositivi, un laboratorio per la produzione artistica, una biblioteca per bambini, un teatro, gli studi di una radio locale, uno spazio giochi per bambini ed ora anche il Cineporto, un centro di produzione cinematografica finanziato dall’amministrazione regionale.

Nuove strade per il Mezzogiorno? Potrebbe sembrare una favola, o quantomeno un racconto dal tono apologetico. Al di là delle rappresentazioni patinate della primavera pugliese ci sono, ovviamente, problemi nuovi, che si combinano con quelli di sempre. Ed a confermarlo sono gli stessi protagonisti degli esperimenti sociali di questi anni: dalla resistenza ai cambiamenti da parte di burocrazie e corporazioni professionali a qualche cantiere che ancora non riesce a partire. Ma quando c’è resistenza, vuol dire che l’ipotesi del cambiamento è credibilie. Ed in una certa misura fa paura a chi dal cambiamento ha qualcosa da perdere, entusiasmando invece chi, viceversa, ne è il protagonista. È difficile immaginare una concreta prospettiva di sviluppo – economico e civile - per il Mezzogiorno che prescinda dal ritorno sul territorio di una porzione di quel prezioso capitale umano faticosamente accumulato dalle strategie di investimento delle (più fortunate) famiglie meridionali. Quella aperta in Puglia negli ultimi anni potrebbe essere una strada degna di essere sperimentata in tutto Mezzogiorno. Una strada a basso costo ed a forte impatto. Trattenere – o attirare nuovamente – decine di migliaia di giovani meridionali sul territorio, dando loro la possibilità di ideare e gestire progetti di cambiamento sociale che valorizzino la loro – spesso elevata, se non elevatissima – qualificazione. Creare un mercato sociale per professioni e competenze nuove, quali quelle legate alla rigenerazione urbana, all’impresa culturale, alla progettualità sociale. Legare la mobilitazione dei giovani alla riattivazione delle democrazie locali e alla riqualificazione delle città. Se Juri e Michele, entrambi laureati in un ateneo del Centro-Nord, o i loro compagni di lavoro a Lecce, non ci fossero, se ne sentirebbe davvero la mancanza. Nell’eterno dibattitto sui fallimenti dell’azione pubblica nel Mezzogiorno, la diffusione di programmi di questo genere – accanto, ovviamente, a molto altro - avrebbe tanti meriti. Sarebbero più valutabili e trasparenti di tanti progetti di sviluppo filtrati da pervasivi interessi clientelari, porterebbero aria nuova in società locali anchilosate e sfiduciate, contribuirebbero alla creazione di quei beni pubblici locali di cui il Mezzogiorno difetta, conterrebbero anche simbolicamente l’emorragia generazionale, costituirebbero una – certo vulnerabile – linea di difesa contro il dilagare del crimine mafioso. E darebbero la possibilità a tanti giovani meridionali di spendersi concretamente per il benessere della comunità, ripagandola di quanto investito nella loro formazione. Ed, infine, darebbe il senso di come dovrebbe essere percepito il Mezzogiorno dagli italiani del ventunesimo secolo: come una nuova frontiera, da conquistare collettivamente, grazie alle energie dei suoi giovani migliori.