Il 16 aprile 2014 sono entrate in vigore tre nuove Direttive europee sui contratti pubblici con le quali viene aggiornato l’ordinamento che regola la spesa e gli investimenti pubblici degli Stati membri, dunque il governo e l’allocazione della spesa pubblica che incide per circa il 20 per cento sul Pil europeo. Il 25 maggio si va al voto e, su queste norme, da parte dei partiti e dei candidati al Parlamento europeo, non si è sentito nemmeno un minimo accenno. Eppure stiamo parlando delle regole per tutta la spesa pubblica per lavori, servizi e forniture che solo per il nostro paese vale circa 300 miliardi all’anno.

Lo scandalo esploso intorno ad Expo 2015 è figlio di questa disattenzione verso la trasparente applicazione di queste regole, ma anche dei profondi cambiamenti intervenuti in questi anni nella gestione della cosa pubblica e negli assetti produttivi. In assenza di trasparenza delle regole e di consapevolezza sui cambiamenti, la lettura che ci viene offerta delle nuove vicende è inevitabilmente condita con luoghi comuni e banalità. Siamo a oltre 22 anni dal primo arresto che diede il via al disvelamento di quello che venne definito il sistema di Tangentopoli. Nonostante il volume delle indagini, la politica, in sinergia con i mass media, ha concentrato la propria attenzione e il suo intervento solo sui protagonisti attivi e passivi degli atti di indagine, favorendo un processo di totale rimozione del contenuto, delle cause e dei caratteri strutturali del sistema della corruzione.

In questi quattro lustri abbiamo letto solo cronaca, mentre oggi registriamo solo la denuncia bipartisan della persistenza di quel sistema; tutto, secondo questa generica denuncia, continuerebbe come prima. Non è così e sarebbe un grave errore anche solo accreditarne l’idea. Il mondo in questi anni è cambiato: nel contesto complessivo, nella specifica organizzazione delle imprese e delle attività produttive, nella conduzione e gestione delle strutture e delle risorse pubbliche, nei caratteri della politica e degli stessi partiti. È mutato il rapporto fra politica e affari e la corruzione ha assunto caratteri strutturali di gran lunga molto più pericolosi di quelli che hanno caratterizzato la cosiddetta prima Repubblica.

Sembra passato un secolo dal dibattito che accompagnò la definizione della legge 109/94, la cosiddetta legge Merloni, e cioè del primo e unico tentativo di farla finita con la Tangentopoli scoperchiata all’epoca. Quella legge fu la sintesi di un ampio confronto, di approfondite indagini, di numerose audizioni e di diverse proposte di legge di iniziativa parlamentare. Nella sua versione originaria, tradusse questo lavoro in tre vincoli imposti alle amministrazioni aggiudicatici per l’affidamento di un appalto: la previsione urbanistica e la programmazione dell’opera; la definizione di un progetto esecutivo; l’effettiva disponibilità delle risorse necessarie per la sua realizzazione.

A queste tre condizioni si collegavano due corollari fondamentali: la centralità del progetto e la netta separazione del ruolo e dei compiti del progettista da quelli dell’impresa; il divieto di esternalizzare le funzioni e i compiti tipici del committente, con l’esplicita cancellazione della “concessione di committenza” e della “concessione di sola costruzione”. Quanto di questo possiamo ritrovare oggi nel codice dei contratti pubblici per misurare l’adeguatezza e l’efficacia dell’attuale quadro normativo per contrastare fenomeni di corruzione e penetrazione mafiosa?

I vincoli sanciti dalla legge antitangentopoli si sono negli anni continuamente allentati fino a determinare un assetto normativo che consente di praticare l’esatto opposto dei principi che ispirarono il legislatore nel 1994. Da un contesto normativo nel quale l’amministrazione era di fatto vincolata all’affidamento di contratti di appalto di “sola esecuzione”, siamo passati a un sistema di norme che consentono di ricorrere a contratti di appalto “atipici”, nei quali la privatizzazione della progettazione, della designazione dell’impresa, la direzione dei lavori sfuggono al controllo pubblico e a contratti di concessione nei quali la copertura dei rischi e dei relativi costi rimangono quasi sempre e per intero in capo al soggetto pubblico.

Dunque, siamo ritornati al sistema di Tangentopoli? No, peggio, molto peggio. Nel sistema degli anni ottanta lo scambio illecito era gestito da centri di comando occulti e comunque con pratiche “giustapposte” al normale funzionamento del sistema di relazione pubblico-privato, mentre nel sistema attuale lo scambio non è più giustapposto, ma coincidente con la relazione economica. Il modello assunto dalle nuove pratiche è quello che consente di realizzare le infrastrutture per il Treno ad alta velocità con un’architettura contrattuale e finanziaria che spende esattamente “cinque volte” di più di quello che si spende in Spagna o in Francia per realizzare infrastrutture identiche.

Con le modifiche del quadro normativo, quello della “Spa” (Tav Spa, appunto, ma anche Infrastrutture lombarde Spa ed Expo 2015 Spa, nonché le migliaia di Spa costituite a livello locale) è diventato un “modello” legalizzato, praticabile non solo per le grandi opere, bensì in modo diffuso grazie alla modifica della definizione del contratto di concessione (Merloni quater, 2002), che consente, con il cosiddetto projectfinancing, di sostituire il corrispettivo tipico della concessione, dato dal “diritto di gestire” l’opera o il servizio, con un “prezzo” totalmente garantito dal committente pubblico.

In questi anni si sono moltiplicate, con una progressione geometrica, le Spa promosse e controllate dallo Stato, dalle Regioni e dagli enti locali, che, quando non scappano dall’applicazione del codice, producono comunque una privatizzazione della spendita di denaro pubblico e/o una concorrenza sleale nei confronti degli operatori economici che ancora confidano in un mercato libero e competitivo. Stiamo parlando di un numero semplicemente straordinario di società che operano in un regime di diritto privato, spesso fuori dalle regole della contabilità pubblica. Una marea di attività controllate, determinate o gestite da presidenti e consigli di amministrazione “nominati” e nelle quali il ruolo e i rapporti fra politici, tecnici e imprenditori si confondono, in un sistema economico tale da fare invidia a quelli dei paesi del socialismo reale se ancora fossero in vita.

La spesa pubblica dunque non più pilotata dalla transazione occulta e giustapposta della tangente, ma da un sistema che ha trasformato in toto la stessa spesa di denaro pubblico in “pseudo tangente”, nella quale ceto politico di partiti di plastica, manager di imprese virtuali e boiardi dai facili costumi possono scambiare favori e ruoli senza inutili mazzette per partiti inesistenti. Come e più degli anni ottanta, si ripropone un impatto devastante non solo e non tanto sulla spesa pubblica, ma anche e soprattutto sulla struttura produttiva e sui fattori produttivi più deboli. La possibilità offerta nel mercato domestico di acquisire commesse senza competizione ha indotto nelle grandi imprese italiane un totale disinteresse verso l’innovazione tecnologica e l’investimento in ricerca e sviluppo.

L’ormai evidente assenza di una grande impresa innovativa e competitiva rappresenta però anche un forte handicap per la crescita e la qualificazione della struttura produttiva della piccola e media industria del settore. Una grande impresa, diventata una scatola vuota, orientata solo al mercato, politico e tendente all’oligopolio, priva di innovazione e organizzazione tecnologica, scarica inevitabilmente la competizione verso il basso e induce anche nella piccola e media impresa una competizione tutta fondata sui fattori competitivi più poveri e di basso profilo. Non è un caso che l’Italia sia il paese con gli indici più alti di corruzione, ma anche e soprattutto con il primato di lavoro nero, lavoro grigio, lavoro precario e infortuni sul lavoro.

* Direttore di Itaca, Istituto nazionale per la trasparenza degli appalti e la compatibilità ambientale.