Mohammed è paffutello e sorridente, gattona spedito sul tappeto afferrando tutto ciò gli viene a tiro e quando si avventa sul vassoio la mamma, tirandolo su per un braccio, lo riporta sul cuscino da dove dovrà ricominciare la sua corsa impacciata verso le bottiglie di coca cola che lo affascinano tanto. Ma lui non si perde d’animo e ci riprova, attirando l’attenzione di tutti quelli che si sono seduti ad ascoltare la storia della sua mamma, Ruweida, una palestinese di trenta anni arrivata in Libano dalla Siria 14 mesi fa quando era ancora incinta, assieme agli altri due figli che ora hanno quattro e due anni. Mohammed, spiega Ruweida, non esiste per le autorità siriane né per quelle libanesi. È nato nel campo profughi palestinese di Beddawi, cinque chilometri a nord di Tripoli, ma non è stato registrato. È probabilmente il più piccolo profugo del campo dove hanno trovato rifugio molte famiglie di palestinesi che vivevano in Siria.

Secondo le stime dell’Unwra, l’Agenzia Onu per il soccorso e l'occupazione dei profughi palestinesi, tra i 4000 e i 5000 palestinesi hanno lasciato la Siria da quando sono iniziate le violenze, 18 mesi fa. Si trovano soprattutto a Sidone, al sud, dentro e intorno al campo di Ein el-Hillweh. In Libano, paese che non ha non ha sottoscritto la Convenzione sui Rifugiati del 1951 né il Protocollo sui Rifugiati del 1967, sono “ospiti” più temporanei dei siriani e molto meno graditi. Vivono nei già sovraffollati campi profughi palestinesi, sono praticamente esclusi dagli aiuti e guardati con sospetto dal governo libanese, alle prese con la diaspora palestinese dal 1948, che teme arrivi in massa.

Nel paese dei cedri il 53 per cento dei circa 445.000 palestinesi vive nei 12 campi presenti sul territorio, quasi i due terzi in condizioni di povertà e per la metà disoccupati. Non sono cittadini di alcuno Stato, privati dei basilari diritti umani e dell'accesso a molte professioni.

Ma Mohammed non si cura di tutti questi problemi. Saltella sulle ginocchia della mamma che fa scorrere sul cellulare le foto di Tel Kalakh, la città di 22.000 abitanti in maggioranza alawiti, 32 chilometri da Homs, dove viveva con il marito siriano che l’ha raggiunta qualche mese fa a Beddawi. Mostra una moschea che, dice, è stata bombardata, e il suo quartiere che ora è distrutto.

Mentre il 6 luglio 2011 entrava in Libano da Marah ad Dabbus, pagando 50.000 lire libanesi (circa 25 euro) a persona per il visto, a Tel Kalakh infuriava la battaglia: gli uomini della temutissima IV Brigata dell'esercito siriano, al comando di Maher al-Assad, fratello minore del presidente Bashar, nelle settimane precedenti avevano arrestato, torturato e ucciso decine di persone. “Sono venuti a casa”, racconta Ruweida, “cercavano i terroristi e hanno strappato dal collo di mio figlio una collana con un proiettile che gli aveva regalato il nonno. Hanno arrestato mio cognato e gli hanno tagliato i tendini dei polsi. Chi è rimasto è perduto”. Poi si guarda intorno e racconta malinconica della sua casa in Siria di cui resta soltanto la cucina - “molto più bella” di quella che ha affittato al campo di Beddawi - con mobili nuovi e tutte le sue cose che ha dovuto lasciare: “Spero che Assad cada così potrò tornare a casa. Voglio che i miei figli crescano in Siria”.

Ruweida ammette di essere fortunata. Almeno la sua famiglia ha una casa tutta per sé. Hussein (nome inventato), 23 anni, invece, da una settimana è ospite assieme alle sorelle e ai fratelli della famiglia dello zio nel campo palestinese di Nahr el Bared, 16 chilometri da Tripoli. Sono in 14 in una casa di tre stanze all’interno di un campo di circa 32.000 abitanti, con i servizi scarsi e una parte della popolazione che vive in un alveare di container dal 2007, quando le Forze armate libanesi sono entrate nel campo e lo hanno bombardato per cacciare i miliziani di Fath al Islam. “Ho un permesso di tre mesi e per prorogarlo di altri tre devo pagare 50.000 lire”, dice. “Qui è difficile trovare lavoro e a Damasco ho perso tutto. Sono scappato perché non volevo essere arruolato nell’esercito. Ho manifestato contro Assad e sono sicuro che sia arrivata la sua fine, sta perdendo il controllo del paese, ma nessuno Stato straniero deve intervenire in Siria, è sufficiente che armino i ribelli”. Hussein racconta che in Siria faceva il muratore, ma a Nahr el Bared il lavoro non c’è. Lui come Ruweida e i suoi bambini non hanno l’aiuto di nessuno.

La questione dei palestinesi fuggiti dalla Siria, dove sono 489.000 e ci sono nove campi, è entrata nell’agenda del governo libanese da poco e le soluzioni proposte sinora sono insufficienti a garantirgli sostegno. La soluzione della crisi siriana è lontana, ma Beirut non vuole concedere ai profughi permessi lunghi: le parole ‘campi’ e palestinesi’ rievocano i fantasmi della guerra civile (1975-1990).

“Sono profughi due volte, quindi sono più vulnerabili”, spiega Fabio Forgione, capomissione di Medici senza frontiere (Msf) in Libano, “In base alle ultime informazioni dall’Unwra, possono restare in Libano un mese, poi sono considerati illegali a meno che non escano dal paese e poi rientrino, ma allo stato attuale è impensabile. Quindi ci spettiamo un aumento dei palestinesi presenti illegalmente in Libano, con conseguenti difficoltà di accesso ai servizi e agli aiuti”.