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Il testo che segue è la sintesi dell’articolo pubblicato nel n.3-4 2016 de La Rivista delle Politiche Sociali. Gli abbonati possono leggerlo qui in versione integrale. Questo è invece il link alla rubrica che Rassegna dedica alla stessa Rivista
Negli anni recenti, sono state pubblicate molte statistiche e molte elaborazioni originali sulla disuguaglianza ed è fiorita un’ampia letteratura che mette in relazione le spirali recessive/depressive con l’aumento delle iniquità nella distribuzione del reddito e della ricchezza. Tra i più recenti e più noti contributi spiccano quelli di Stiglitz (2012), Piketty (2014) e Atkinson (2015). Oggi appare riconosciuto dalle istituzioni internazionali che assieme alla liberalizzazione dei movimenti di capitale e la globalizzazione dei mercati e dei processi produttivi – e non certo dei diritti e delle tutele del lavoro – abbiano giocato un ruolo tanto imponente quanto devastante nella formazione degli squilibri globali e delle disuguaglianze.
La tigre è ferita! Riconoscere le falle del pensiero economico dominante e le debolezze strutturali dell’attuale sistema sono due buoni punti di partenza per costruire nuovi lineamenti di politica economica e un nuovo modello di sviluppo. L’Italia è uno dei Paesi più diseguali del mondo: sesto nella classifica Ocse stilata sulla base dell’indice di concentrazione del reddito disponibile e addirittura terzo se si fa riferimento al reddito “di mercato” (Ocse, 2011). Il tratto più importante nelle tendenze delle disuguaglianze, perciò, sembra assumerlo la progressiva compressione della quota di reddito nazionale destinata al lavoro. Un’evidenza che si può riscontrare in tutte le economie avanzate, prima e dopo la crisi.
Eppure, per ragioni di carattere macroeconomico, l’invarianza delle quote distributive, cioè il mantenimento nel medio periodo della stessa incidenza sul Pil della massa salariale e della parte di reddito nazionale che va a profitti e rendite, assicura la massima crescita della domanda interna compatibile con l’assenza di pressioni sul saggio di profitto e sui prezzi – a parità di rapporto tra occupazione dipendente e indipendente – consentendo, nel lungo periodo, di portare i risparmi a eguagliare gli investimenti necessari per conseguire il pieno impiego e il tasso di crescita del prodotto potenziale. Peraltro, la continua crescita delle retribuzioni reali costituisce il principale sostegno ai consumi delle famiglie, ma anche il fondamentale elemento di pungolo alle imprese sul terreno degli investimenti e dell’innovazione, tecnologica e organizzativa.
Da un punto di vista matematico, la costanza nel tempo della quota del lavoro sul Pil si ottiene se i redditi da lavoro, ovvero i salari medi reali, crescono nella stessa misura in cui cresce la produttività del lavoro reale. In Italia, a prescindere da ogni valutazione del “modello contrattuale” e delle pratiche di contrattazione collettiva (due linee non sempre parallele), va riscontrato che alla progressiva compressione della quota del lavoro ha corrisposto una costante contrazione degli investimenti fissi. Non a caso, la crescita corrispondente della quota del capitale ha favorito soprattutto i settori finanziari dell’economia (e la distribuzione dei dividendi ai possessori di azioni) e immobiliari. Non solo. Oggi, un aumento dei salari reali aiuterebbe a scongiurare la deflazione. Ciò contribuisce a spiegare come i fattori di debolezza strutturale dell’economia italiana, con l’irruzione della crisi nei bastioni dell’economia, italiana ed europea, abbiano generato la maggiore intensità recessiva tra tutti i principali Paesi europei.
Se è vero, allora, che ridurre la disuguaglianza rappresenti di per sé una strategia di politica economica per conseguire una crescita più sostenuta e sostenibile, allora occorre scandire le determinanti su cui agire, riconducibili a due direttrici fondamentali: predistribuzione e redistribuzione del reddito. In questa prospettiva, la politica industriale – a livello nazionale come sovranazionale – dovrebbe riscoprire i suoi connotati regolatori e la sua vocazione sistemica, vigilando sulla concorrenza e incentivando le attività economiche più competitive, ma anche intraprendendo scelte strategiche per il Paese attraverso la creazione di nuovi settori dell’economia e nuovi investimenti pubblici, a partire dalle infrastrutture, materiali e immateriali, oltre che sociali. Tutto ciò, però, comporterebbe un’inversione di rotta rispetto alle politiche di contenimento della spesa, riduzione del perimetro pubblico e dei diritti, deflazione salariale e utilizzo iniquo della leva fiscale, perseguite negli ultimi anni in Italia.
La proposta di un nuovo Piano del lavoro della Cgil (2013) nasce proprio dalla ferma convinzione che non si aprirà una nuova stagione di crescita e sviluppo del nostro Paese se non si parte da un nuovo intervento pubblico e da un sistema di relazioni industriali che abbiano come primo obiettivo la creazione di lavoro. Le relazioni industriali possono essere articolate sia nell’ambito della redistribuzione che della predistribuzione. Basti pensare alla cosiddetta Politica dei redditi. Lo stesso rafforzamento della contrattazione collettiva e dei diritti sindacali diventano una strada da seguire con l’intento politico di modificare la distribuzione del reddito. Cercando di formulare un modello ideale di relazioni industriali per il nostro sistema-Paese, con il documento Cgil, Cisl e Uil “Per un moderno sistema di relazioni industriali” (2016) si vogliono spingere il sistema di imprese e le istituzioni a scommettere su un modello di contrattazione “multilivello”, più partecipativo (con i rappresentanti dei lavoratori coinvolti nella governance e nelle scelte strategiche delle imprese), anche attraverso l’approvazione di una legge che renda validi per tutti i minimi retributivi fissati nei contratti.
Il salto culturale proposto unitariamente dal sindacato italiano richiede che l’intero modello di relazioni industriali evolva con una scelta strategica di partecipazione, capace di restituire al mondo del lavoro e al sindacalismo confederale la sua vocazione naturale di forza propulsiva dello sviluppo economico e sociale, elevando la stessa contrattazione a valore fondamentale per la crescita democratica, politica e sociale dell’intera collettività nazionale. A corollario, va ricordato che per risollevare la quota del lavoro, oltre all’incremento dell’occupazione e dei salari, occorre aumentare la “buona” occupazione, accrescendo rappresentanza, diritti, tutele e retribuzioni. Le risposte devono trovarsi all’interno di una forte strategia di riunificazione del lavoro capace di parlare alle nuove generazioni e al Paese nel suo complesso. Per questo la Cgil ha proposto la Carta dei diritti universali del lavoro (2015).
Riccardo Sanna è coordinatore dell’area Politiche di sviluppo della Cgil nazionale