L'Italia sembra anticipare una tendenza generale alla stagnazione, il che confermerebbe una strategia del governo che non funziona e l'assenza di una vera ripresa”. Questo il netto giudizio della Cgil, che trova riprova nell'analisi dei principali indicatori macroeconomici nazionali, curata dall'area delle politiche economiche, e riportata nel primo numero dell'Almanacco dell'economia del sindacato di Corso d'Italia. Renzi continua a dichiarare che l'Italia cresce, ma la Cgil nel suo studio evidenzia: “il governo scambia le fluttuazioni positive di natura congiunturale per una ripresa strutturale dell'economia italiana e, anziché scegliere una politica economica realmente espansiva e aprire una vertenza europea, ha mistificato dati e analisi, alimentando la comprensibile speranza popolare di uscire dalla crisi”. Per questo la Cgil, a partire dal mese di dicembre, diffonderà con cadenza mensile una elaborazione che illustrerà in modo oggettivo le statistiche sull'andamento dell'economia italiana. A seguire (in allegato grafici e tabelle) pubblichiamo la prima edizione dell'Almanacco, che riporta una tabella con i principali indicatori macroeconomici divisa in cinque sezioni: nella prima vengono analizzati i conti nazionali che compongono la crescita dal lato della domanda aggregata; nella seconda la produzione e l’industria; nella terza l’inflazione; nella quarta il mercato del lavoro; nell'ultima i salari.

Dalla recessione alla stagnazione. L’Italia ha registrato la maggiore intensità della crisi tra tutte le economie avanzate e nell’ultimo periodo sembra addirittura anticipare la tendenza generale alla “secular stagnation” (visto anche il ritorno della natalità ai livelli dell’Unità d’Italia) e alla “low-flation” (visto l’andamento dell’inflazione, anche in Europa). Come previsto dalla Cgil (in una nota dell’8 settembre scorso, dal titolo “La crisi senza ferie e senza fine”), ben prima del Fmi (World Economic Outlook di ottobre) e della Bce (dichiarazioni di Draghi di novembre), la congiuntura favorevole, su cui il Governo da luglio scorso ha costruito la propaganda della ripresa, appare già finita. Lo “zero-virgola” di crescita italiana scandisce una variazione positiva ben lungi dal poter essere chiamata ripresa, non solo perché la variazione del PIL rallenta nell’ultimo trimestre (tanto da far ridimensionare le stime di crescita per il 2015 e le previsioni per gli anni successivi); non tanto perché denota un ritmo di crescita inferiore a tutti gli altri principali paesi industrializzati (anche nelle previsioni più ottimistiche); non soltanto perché distante dal livello pre-crisi del PIL e dell’occupazione; bensì perché non si “riprenderanno” mai più i livelli pre-crisi senza un cambiamento del modello di sviluppo economico.

La spinta esterna è esaurita. Il favorevole “rimbalzo” dell’economia è avvenuto prevalentemente grazie a variabili esogene (basso prezzo del petrolio, Quantitative Easing Bce e tasso di cambio favorevole), che stanno esaurendo la loro spinta a fronte soprattutto del rallentamento della crescita dei paesi emergenti (prima tra tutti la Cina) e della frenata del commercio internazionale, data l’assenza di una politica economica nazionale che agisca sui “vuoti” della domanda effettiva, come sulle debolezze strutturali dell’offerta. Senza contare la diffusa riduzione dei tassi di interesse da parte delle Banche centrali, la massa monetaria emessa solo con i QE della Fed, con il QE della Bce e il Piano di finanziamento europeo a lungo termine (Ltro) ammonta circa a 9 mila miliardi di dollari (cifra senza precedenti), eppure non c’è alcuna ripresa mondiale e, anzi, si è inverata una vera e propria “trappola della liquidità” globale.

La svalutazione dell’euro e la ricerca di una competitività extra-Ue, inoltre, assieme al paventato aumento dei tassi da parte della Fed, ha indotto la Cina a sganciare lo yuan dal dollaro e a scegliere una sua svalutazione competitiva. Allo stesso modo, la flessione del prezzo del petrolio ha causato una caduta della domanda interna e delle importazioni dei paesi esportatori di materie prime energetiche, ostacolando – anche in questo caso – le esportazioni europee. Non era difficile prevedere che le vantaggiose variabili esogene non potessero durare nel tempo. Come sostiene l’Istat nella sua Nota mensile n. 11, in Italia, “in presenza di una diminuzione degli investimenti, la debolezza del ciclo internazionale ha condizionato negativamente le esportazioni”. Sempre l’Istat afferma che “a ottobre i dati di commercio estero in valore hanno evidenziato il proseguimento delle difficoltà delle vendite sui mercati extra-Ue (-1,7% rispetto al mese precedente)”, a cui “si accompagna il rallentamento del clima di fiducia registrato a novembre, condizionato dall’evoluzione nel settore dei beni di consumo”.

L’austerità non ha funzionato e la svalutazione competitiva ha rigenerato solo un temporaneo recupero dell’export

L’austerità non ha funzionato e la svalutazione competitiva – del lavoro, dell’euro e, da ultimo, per via fiscale – ha rigenerato solo un temporaneo recupero dell’export pre-crisi, senza alcuna ripresa delle altre componenti della domanda aggregata e, in particolare, degli investimenti (nemmeno quelli “attratti” dall’estero, come dimostra l’andamento della bilancia dei pagamenti, in “L’economia italiana in breve” n. 104, dicembre 2015, Banca d’Italia). Va sottolineato che alcune fonti istituzionali e organi di stampa hanno attribuito il nuovo rallentamento dell’economia nazionale alla paura generata dai recenti attacchi terroristici di Parigi (13 novembre 2015), ma la prima contrazione degli indicatori di crescita (oltre alla successiva descritta in tabella) risale ai mesi precedenti.

Il Jobs Act non ha funzionato. Gli ultimi dati Istat su occupati e disoccupati di ottobre permettono di tracciare un primo bilancio, in termini costi-benefici, dei provvedimenti di deregolazione del lavoro che vanno sotto il nome di Jobs Act e dei connessi incentivi previsti dalla precedente Legge di stabilità (sgravi contributivi per i neoassunti e deduzione del costo del lavoro indeterminato dall’Irap), il cui costo per lo Stato ammonta a 5,9 miliardi di euro solo nel 2015. Dall’inizio dell’anno a fine ottobre 2015 le fila degli occupati sono aumentate di 84.642 persone, di cui 178.024 a tempo termine e solo 2.367 a tempo indeterminato; nello stesso periodo, i lavoratori indipendenti (autonomi, partite Iva individuali, atipici, ecc.) sono diminuiti di -83.634 unità.

Da ormai due mesi gli occupati sono tornati a diminuire

Da ormai due mesi gli occupati sono tornati a diminuire (-84 mila persone) e, solo a ottobre, i disoccupati (-13 mila) calano tre volte meno di quanto calino gli occupati (-39 mila), gonfiando ancora la platea degli inattivi. Difatti, da gennaio a ottobre, al calo del tasso di disoccupazione ha corrisposto uno speculare incremento del tasso di inattività. Va ricordato che, rispetto al periodo pre-crisi, la forza lavoro si è allargata per via di nuove persone in cerca di occupazione e il tasso di inattività è diminuito, anche se le ore lavorate dei lavoratori dipendenti sono aumentate.

La strategia del Governo non funziona. Su export, investimenti privati e clima di fiducia, il Governo ha scommesso per realizzare la crescita del 2015-2019 e, allo stesso modo, ha posto le basi del quadro programmatico macroeconomico e di finanza pubblica per la Legge di stabilità 2016 (attualmente in discussione in Parlamento), su cui la Cgil infatti ha espresso le sue perplessità (in audizione presso le Commissioni congiunte “Bilancio”, il 2 novembre scorso). Il Governo ha scambiato fluttuazioni positive di natura congiunturale per una ripresa strutturale dell’economia italiana e, anziché scegliere una politica economica realmente espansiva e aprire una “vertenza europea”, ha mistificato dati e analisi macroeconomiche, alimentando la comprensibile speranza popolare di uscire dalla crisi. Ma non c’è niente di peggio di una speranza disillusa, eccetto una falsa speranza!