Agd. La sigla domina il manifesto di presentazione dello sciopero generale del pubblico impiego, indetto da Cgil, Fp, Flc e Uil di categoria. Quelle tre lettere significano “Abbiamo già dato”, testimoniando efficacemente la rabbia e l’esasperazione cui sono giunti ormai i circa tre milioni di lavoratori pubblici appartenenti ai diversi comparti (sanità, enti locali, ministeri e parastato, ricerca e università) che il 28 settembre incroceranno le braccia per l’intera giornata contro i provvedimenti del governo Monti. Una protesta maturata nel corso del tempo, visto l’accanimento che ha caratterizzato gli ultimi esecutivi in materia e che ha raggiunto il suo apice con la legge 135/2012, più comunemente nota come spending review.

Una revisione di spesa che perdura da anni nel settore pubblico, se è vero che sono almeno 60 i miliardi di tagli ai trasferimenti per Comuni e Province, decisi prima da Berlusconi e ora da Monti. Per il sindacato, si traducono nell’impossibilità di garantire i servizi ai cittadini, nell’aumento delle tariffe e della tassazione locale e, aspetto non meno secondario, in mobilità, esuberi e licenziamenti di lavoratori, a cominciare da quelli precari.

La scure del governo si abbatte in particolare sulla sanità, dove si sono già accumulati 21 miliardi di tagli negli ultimi quattro anni. Adesso si parla di un’ulteriore riduzione di fondi da destinare al servizio nazionale e alle strutture accreditate e dunque di conseguente cancellazione di servizi e prestazioni, sotto forma di posti letto ospedalieri, della chiusura di interi nosocomi, dell’abbandono di una politica per l’assistenza territoriale, dell’azzeramento di risorse per l’edilizia sanitaria. Uno scenario drammatico, che – secondo il sindacato – mira a indebolire il sistema sanitario nazionale per fare largo ai privati e finisce col ripercuotersi sull’utenza.

Denuncia Cecilia Taranto, della segreteria nazionale della categoria Cgil: “Già ora in molte Regioni, soprattutto quelle sottoposte ai piani di rientro dal deficit, come Lazio, Campania, Calabria e Piemonte, le strutture pubbliche non sono più in grado di assicurare i servizi essenziali ai cittadini. La spending review non farà che aggravare un quadro compromesso e porterà in sofferenza la sanità in tutta Italia, comprese le realtà territoriali più virtuose, a cominciare dall’Emilia Romagna, dalla Toscana e dalla Lombardia”.

A essere sbagliata è proprio la filosofia ispiratrice della 135. “Non solo si attacca in modo ragionieristico l’ospedalizzazione – osserva ancora Taranto –, ma il provvedimento del governo, anziché rafforzare i servizi di prossimità, incide pesantemente anche sui fondi che assicurano il sociale. Un’autentica follia. E quel che è più grave è che si colpiscono i soggetti particolarmente deboli, penalizzando l’assistenza domiciliare ai disabili, la residenzialità degli anziani”.

Questo, stigmatizza ancora la Fp, dopo che il governo precedente aveva azzerato il fondo per la non autosufficienza e ridotto al minimo quello per le politiche sociali. Il quadro diventa a tinte fosche anche sotto il profilo occupazionale (riguardante 800.000 persone). “Ci troviamo di fronte a casi dove i lavoratori non percepiscono più lo stipendio da 6-7 mesi – sostiene Taranto –, perché gli enti locali non pagano più, a situazioni dove la cassa integrazione in deroga è scaduta da tempo. Le nostre stime indicano migliaia di posti di lavoro già persi e altrettanti lavoratori prossimi al licenziamento”. delle autonomie locali.

A giudizio di Federico Bozzanca, della segreteria nazionale Fp, “la spending review non è in realtà una revisione di spesa, ma l’ennesimo attacco al settore, l’ennesimo taglio lineare a tutti gli effetti, con un’ulteriore penalizzazione dei lavoratori, dato che colpisce tutti indistintamente e non risponde a una logica di riordino dell’organico, come a parole si enuncia nel provvedimento. Quei tagli difficilmente contribuiranno a dare risposte ai bisogni dei cittadini, in quanto mettono addirittura in forse il mantenimento del sistema dei servizi. Nella legge non c’è un progetto di razionalizzazione della spesa, né tantomeno un’idea di riforma organica dell’attuale modello degli enti locali, ma solo l’obbligo di associazione delle funzioni per i piccoli Comuni, nonché quello di accorpare le Province”.

Secondo Salvatore Chiaramonte, responsabile Fp di ministeri e parastato, la differenze maggiori con il governo attengono proprio all’impianto generale della riorganizzazione che si intende portare avanti. “In realtà – dice il sindacalista –, quelli che ci propongono sono solo interventi di natura finanziaria, che mirano, come il precedente decreto Salva Italia, a ridurre il perimetro dello Stato e dunque la sua presenza sul territorio, chiudendo uffici e attività, mentre contemporaneamente si persegue il taglio delle retribuzioni, con la richiesta di un ulteriore rinvio di un anno dei contratti del pubblico impiego, dal 2014 al 2015. Questo, dopo che il governo Berlusconi, invece che incrementare l’efficienza e la produttività dei dipendenti, aveva bloccato la contrattazione integrativa e tagliato il salario accessorio dal 15 al 25 per cento, oltre alle relative indennità”.

Ancora più grave è la situazione in quella che si può definire la Cenerentola del settore pubblico, la ricerca. “Siamo sotto la soglia di sopravvivenza – afferma Francesco Sinopoli, della segreteria nazionale Flc – e la spending review finisce col rendere insostenibile la gestione ordinaria degli enti di ricerca, dall’attuazione dei progetti al pagamento degli stipendi dei 30.000 addetti. Il discorso comprende tutti gli istituti, dall’Enea all’Istat, al Cnr, dove già a partire da quest’anno i tagli saranno drastici, parliamo di alcuni milioni in meno, fino ad arrivare alla paralisi delle attività, mettendo le persone in condizioni di non poter più operare”. Tagli di risorse così pesanti (che non hanno eguali in tutta la pubblica amministrazione) avranno ripercussioni a catena sulle dotazioni organiche. “In questo caso – ricorda Sinopoli –, i precari sono indispensabili per l’attività: se non fai assunzioni cicliche, la ricerca muore. Ora siamo passati ai licenziamenti di persone che stanno lì da più di dieci anni, portando avanti un progetto con un contratto a termine. Se all’improvviso scompaiono questi ricercatori, si blocca tutto”.

La strategia di progressivo smantellamento riguarda anche il comparto dell’università: qui si mira a ridurre progressivamente sia i docenti che il personale tecnico-amministrativo (dove attualmente operano 120.000 addetti). “Premesso che l’ex ministro Gelmini aveva causato danni incalcolabili con la sua riforma – conclude Sinopoli –, si prosegue oggi con la solita politica di diminuzione delle risorse, accompagnata da un aumento delle tasse per gli studenti, che si traduce in un aggravio economico per le famiglie”.