Il ’68 era stato un anno straordinario per il sindacato. Avevano scioperato poco meno di 5 milioni di lavoratori, il doppio dell’anno precedente. Molteplici le cause dell’esplosione. In primo luogo vi era l’esasperazione dei ritmi di produzione dovuta a una ripresa improvvisa della domanda. In secondo luogo, l’erosione del potere d’acquisto dei salari a causa dell’inflazione importata dagli Stati Uniti – inflazione dovuta alla guerra in Vietnam e all’aumento della spesa pubblica, con la quale Johnson cercava di recuperare il consenso eroso dalla guerra –. A ciò si aggiungeva un motivo tutto italiano: l’insufficiente offerta di servizi pubblici – scuola, casa, sanità, trasporti – cui dover rispondere con la spesa privata. In terzo luogo, vi erano i licenziamenti conseguenti ai processi di ristrutturazione seguiti alla crisi statunitense del ’63-64. Una situazione quindi complessa e contraddittoria. Anche il bilancio delle lotte presentava luci e ombre: in molte aziende si erano raggiunti risultati positivi in termini salariali e di diritti; ma, guardando alla distribuzione complessiva del reddito, la quota da lavoro dipendente era diminuita, a causa dell’aumento della disoccupazione, in particolare nel Mezzogiorno.

La Cgil, preoccupata che le agitazioni possano rimanere limitate alle grandi aziende, o che le richieste di ritmi più accettabili, avanzate soprattutto dai giovani, possano entrare in conflitto con le necessità salariali dei padri di famiglia, decide di affiancare alle vertenze aziendali due grandi battaglie confederali: quella sul riordino del sistema pensionistico (dicembre ’67-aprile ’69) e quella contro le gabbie salariali (aprile ’68- marzo ’69). Con la positiva conclusione di queste vertenze, agli inizi del ’69, il sindacato recupera credibilità e consensi anche in quelle grandi aziende dove si erano manifestate spinte fortemente critiche nei suoi confronti. Ciò nonostante, la domanda di partecipazione dei lavoratori alle scelte collettive rappresenta una novità alla quale le vecchie strutture sindacali non sono in grado di rispondere.

A ricostruire il rapporto tra sindacato e lavoratori è il delegato di linea o di reparto, conquistato con gli accordi del primo semestre del ’69 (alla Rhodiatoce di Pallanza, alla Fatme di Roma, alla Marzotto, alla Pirelli, alla Om di Milano, alla Dalmine di Piombino, alla Saint Gobain, alla Zoppas di Treviso, nell’accordo provinciale dei lanieri biellesi, e alla Fiat di Torino). Nel ’69 sono interessati ai rinnovi dei contratti oltre 6 milioni di lavoratori: 2.380.000 sono metalmeccanici, chimici ed edili, altrettanti però sono frazionati in 70 contratti. Ad essi si aggiungono 1 milione e mezzo di braccianti e salariati fissi. Per raccogliere e interpretare le spinte di base, le federazioni di categoria decidono di avviare una consultazione di massa sulle piattaforme contrattuali, disposte a modificare anche strategie sindacali radicate: la consultazione tra i metalmeccanici vede prevalere la linea degli aumenti salariali uguali per tutti, alla quale la Fiom era inizialmente contraria.

La capacità di dialogo delle federazioni e gli stessi successi ottenuti su pensioni e gabbie salariali inducono molti a vedere nel sindacato e nella contrattazione gli strumenti più efficaci di cambiamento, a fronte di partiti e politica, sui quali pesano da un lato il magro bilancio del centrosinistra in termini di riforme e, dall’altro, il carattere repressivo del cosiddetto “socialismo realizzato”, evidenziatosi per l’ennesima volta con l’intervento sovietico in Cecoslovacchia. Si diffonde l’idea che il sindacato possa intercettare il consenso sociale senza la mediazione dei partiti che tradizionalmente mediano i rapporti con contadini e ceti medi. La convinzione che la classe operaia abbia la forza, se compatta e non frenata dalla ricerca di compromessi con gli altri ceti di imporre i propri obiettivi è una illusione, ma pare realistica: in quel momento si registra la massima espansione quantitativa della classe operaia regolare e stabile; e nel ’70 (e per tutto il decennio) i lavoratori dell’industria superano per la prima volta la metà degli iscritti alla Cgil. Inoltre, ampi strati di lavoratori, grazie al forte potere di interdizione che possono esprimere sul ciclo fordista, si convincono della residualità della mediazione politica per migliorare la propria condizione.

Da qui la fortuna del tema della incompatibilità tra sindacato e partito, e delle polemiche contro l’invadenza dei partiti. È questo uno dei temi centrali del VII Congresso della Cgil, che si apre a Livorno il 16 giugno 1969. Per la prima volta dalla scissione, Cisl e Uil sono presenti con ampie delegazioni e i loro segretari, Bruno Storti e Ruggero Ravenna, intervengono, accolti calorosamente dalla platea. Il segretario generale, Agostino Novella, nutre forti dubbi sull’unità “dal basso”, che rischia di rinchiudere la spinta unitaria sul terreno puramente rivendicativo. I dissensi politici e strategici che dividono le confederazioni – è la sua convinzione – sono il frutto di visioni del mondo, “indirizzi politici diversi, rispondenti a interessi diversi e contrastanti” e non possono essere risolti semplicemente con le regole dell’incompatibilità. Ai delegati queste considerazioni appaiono un modo per rallentare il processo unitario. La relazione viene aspramente criticata. Le divisioni attraversano tutte le correnti, e ciò produce un dibattito ricco e articolato.

Il congresso decide l’incompatibilità immediata con le cariche elettive e con gli uffici politici dei partiti (la Cisl ha da poco assunto posizioni analoghe). Novella accetta il responso, ma rimane convinto che ciò non avvicina l’unità, e lancia la proposta di svolgere una riunione allargata dei Consigli generali delle tre confederazioni (l’assemblea poi conosciuta come “Firenze 1” si realizzerà solo nell’ottobre ‘70 ). Proprio sulle questioni di politica economica e delle riforme permangono i dissensi tra i sindacati. Nonostante la disoccupazione cresca ogni giorno, specie al Sud – dove le manifestazioni assumono i tratti della rivolta, come a Battipaglia il 9 aprile, dove la polizia apre il fuoco sui dimostranti, uccidendone due – i sindacati non riescono ad assumere iniziative nazionali, ma solo territoriali (l’11 luglio 1969 si svolge uno sciopero generale in Sicilia, dove in due anni si sono persi quasi 150mila posti di lavoro).

La Cgil propone agli altri sindacati tre temi da discutere col governo: casa e caro fitti, fisco, sanità. Ma si riesce a trovare un’intesa solo sul primo tema. Il 19 novembre ‘69, lo sciopero generale nazionale per la casa ottiene un successo enorme, superiore anche a quelli per le pensioni e per le gabbie salariali. Secondo le cronache, aderiscono grandi masse di ceti medi urbani, rimasti fino a quel momento estranei, quando non ostili, alle lotte del sindacato. A Milano, però, dove si tiene la manifestazione principale, muore, in circostanze non chiarite, l’agente di polizia Antonio Annarumma. Grande stampa e tv avviano una vera e propria campagna antioperaia che alimenta in una parte dell’opinione pubblica una richiesta di “soluzioni d’ordine”.

Le federazioni intanto sono alle prese con i rinnovi contrattuali. Confindustria e grandi imprese decidono la “linea dura”, ritenendo di avere già dato troppo con gli accordi aziendali dei mesi precedenti. Alla ripresa dalle ferie, la Fiat, prendendo a pretesto l’agitazione di un reparto, licenzia un centinaio di operai e ne sospende 35mila. Pochi giorni dopo si aprono le trattative per il contratto e subito si rompono; lo stesso accade al tavolo degli edili, mentre è bloccato quello dei chimici. Si teme che gli operai della Fiat, logorati dalle lotte di maggio-giugno non intervengano negli scioperi contrattuali. Ma lo sciopero nazionale di categoria dell’11 settembre vede un’adesione plebiscitaria, anche tra gli impiegati. Grazie all’elezione dei delegati avvenuta prima della pausa estiva, il sindacato riesce a guidare il movimento e a sconfiggere – afferma Bruno Trentin – “l’estremismo populista”, che non avrà più un ruolo da protagonista nelle lotte sociali (in luglio, una manifestazione in Corso Traiano, davanti alla Fiat di Mirafiori, in cui forte era stata la presenza di Lotta Continua, era finita in una vera e propria battaglia tra giovani operai e forze dell’ordine).

Le trattative per il rinnovo proseguono, con il sostegno del ministro del Lavoro Donat Cattin, succeduto a Brodolini, prematuramente scomparso nel luglio 1969. Gli imprenditori che, dopo l’intervento di Donat Cattin, sembravano avere ammorbidito le proprie posizioni, tornano a irrigidirsi. Ancora una volta è la Fiat a dare l’esempio: tra ottobre e novembre denuncia decine di operai e sindacalisti. Secondo un libro bianco presentato dai sindacati agli inizi del 1970, tra l’ottobre 1969 e i primi dell’anno successivo sono denunciate circa 14mila persone per 60 reati diversi (che peraltro lo Statuto dei lavoratori, in discussione al Senato e approvato poi in maggio, non considera tali). Il 9 novembre gli edili spezzano l’intransigenza padronale: il contratto siglato prevede aumenti salariali del 20 per cento e altri miglioramenti, 40 ore entro il ’72, diritto di assemblea nei cantieri, nuovi strumenti per il controllo degli infortuni. Fiom, Fim e Uilm indicono a Roma una manifestazione nazionale per il 28 novembre, la prima organizzata da una singola categoria. Nonostante gli inviti a chiudere le saracinesche dei negozi e a tenere a casa i bambini, il successo della manifestazione è enorme: un corteo lungo cinque chilometri riempie Piazza del Popolo.

Dieci giorni dopo, l’8 dicembre, le imprese metalmeccaniche a partecipazione statale firmano l’accordo che prevede le 40 ore settimanali, aumenti salariali eguali per tutti (65 lire l’ora), parità fra operai e impiegati per infortunio e malattia, diritto di assemblea durante l’orario di lavoro. Analoghi contenuti sono accolti nel contratto dei chimici su cui si era raggiunta un’intesa di massima già il 7 dicembre e che viene formalizzato il 12: anch’esso prevede forti aumenti salariali, le 40 ore entro il 1971, diritto di assemblea e norme più rigide sull’ambiente di lavoro. L’11 dicembre è siglato il contratto dei bancari, mentre il Senato approva lo Statuto dei lavoratori. Contemporaneamente le segreterie confederali decidono per il 19 uno sciopero di 4 ore di tutti i lavoratori dell’industria a sostegno dei metalmeccanici.

Il 12 dicembre, un venerdì, alle 16,37 scoppia una bomba alla Banca dell’Agricoltura a Milano. Molti morti e decine di ferite. Contemporaneamente altre bombe scoppiano a Roma. Cgil, Cisl e Uil denunciano: “il carattere di attacco alla democrazia ed alle libere istituzioni di questo infame attentato che non può che essere ispirato da nemici implacabili dei lavoratori con lo scopo di avviare su binari terroristici una situazione segnata da un civile scontro sociale già aperto a sbocchi conclusivi democratici”. Il 17 dicembre prende avvio al ministero del Lavoro la maratona per chiudere il contratto dei metalmeccanici. La Confindustria, come peraltro la Confagricoltura impegnata al tavolo delle trattative con i braccianti, mantiene un atteggiamento di netta chiusura, fino a rimettere in discussione punti già acquisiti.

Alla vigilia dello sciopero dell’industria in solidarietà coi metalmeccanici del 19, la situazione si sblocca e lo sciopero è sospeso, mentre si svolge quello dei braccianti. Pochi giorni dopo l’accordo è concluso, con l’accoglimento dell’80 per cento delle richieste dei lavoratori, sulla falsariga di quello del settore pubblico. Alla vigilia di Natale cede anche la Confagricoltura. L’accordo stabilisce per la prima volta condizioni normative e salariali regolate nazionalmente per braccianti e salariati fissi, aumenti salariali del 15 per cento, l’orario di 42 ore, delegati di azienda, diritto d’assemblea alla presenza dei sindacalisti. L’anno si chiude quindi con un successo sul piano dei contratti. All’orizzonte però si addensano nubi gravide di minacce: anni di grande progresso civile ma segnati anche dalle stragi e dal terrorismo, dall’inflazione e da continue crisi economiche. L’unificazione tra le confederazioni, che sembra a un passo, scivola lontano, mutandosi in una federazione delle confederazioni, durata poco più di un decennio.

(*) Maria Luisa Righi, Fondazione Gramsci