Condividere e collaborare. Sta tutto in queste due parole il nuovo stile di vita che sta lentamente cercando di cambiare la nostra società. “Sharing economy” la chiamano gli esperti, economia collaborativa, una pratica che comincia ad avere molto successo in Italia. Così, mentre ogni giorno sentiamo parlare di arretratezza tecnologica, digital divide e cervelli in fuga, c'è chi non vuole darsi per vinto. E che in qualche modo sta riuscendo a dare forma a un modello di sviluppo alternativo e complementare. L'idea alla base è quella di sfruttare le tecnologie informatiche, in particolare i social network, per condividere tutto: tempo, professionalità, cibo, alloggi, vestiti, libri, passaggi in auto. Seguire una filosofia di questo tipo “vuol dire accettare caramelle dagli sconosciuti”, secondo l’efficace definizione di Ivana Pais, ricercatrice in Sociologia dei processi economici e del lavoro presso la Cattolica di Milano e tra i massimi esperti italiani del fenomeno.

Naturalmente non si accettano solo “caramelle”. “Gnammo”, prima riuscitissima piattaforma di social eating made in Torino permette, ad esempio, di mettere a disposizione la propria cucina dividendo i posti a tavola e le portate con degli sconosciuti. Il cibo diventa così strumento di conoscenza e anche un'entrata finanziaria complementare, dato che la partecipazione ha un costo. Il cibo resta protagonista anche se parliamo di “riciclo”: piattaforme come S-cambia Cibo, Ratatouille, Bring the Food, FrigOk e ifoodshare, promossa da Coop, permettono, infatti, di condividere con altri gli avanzi o semplicemente ciò che sappiamo non riusciremo a mangiare, cercando di diminuire gli sprechi e attenendosi a rigidi parametri di conservazione per evitare intossicazioni.

L'Italia è tra i paesi più ricettivi di questo modello: il 55% degli italiani si dice pronto a condividere, contro il 53% degli spagnoli, il 46% dei tedeschi e il 29% di francesi e inglesi – afferma Pais, citando i dati del sondaggio svolto per Collaboriamo.org, sito fondato con Marta Mainieri e che segue da vicino il fenomeno –. Il motivo di questo successo secondo me sta nelle origini contadine e rurali del nostro paese e nella nostra proverbiale ‘arte di arrangiarsi’: non è un caso, infatti, che esso nasca e si sviluppi in un periodo di profonda crisi”. La sharing economy esplode proprio intorno al 2008 dall'unione di due fattori, la crisi economica e lo sviluppo delle tecnologie relazionali: “La Rete non è più solo un mezzo per scambiare informazioni, ma anche beni e servizi – chiosa la ricercatrice –. Diviene così importante anche la dimensione culturale del fenomeno, e cioè la voglia di collaborare e condividere, in contrasto con un sistema neoliberista che ha dimostrato tutti i suoi limiti. Non è un caso che chi usa principalmente questi strumenti siano freelance e liberi professionisti con un alto tasso di istruzione e con un età compresa tra i 25 e i 40 anni: sono quelli usciti dalle università, colpiti in pieno dalla crisi e insoddisfatti di lavori o carriere non all'altezza della propria formazione. Sanno usare al meglio le piattaforme di sharing e ne hanno bisogno, vedendole come complementari al sistema in cui vivono, per risparmiare e magari anche per arrotondare”.

Negli anni poi è cresciuta anche la partecipazione di persone di altre fasce d’età, attraverso piattaforme che legano il concetto di sharing a pratiche più tradizionali e che sono riuscite a sviluppare un nuovo modello di business e a organizzarsi in aziende. Cosa che fa un po' storcere il naso ai puristi, ma di cui ormai si deve prendere atto. Tra le esperienze più affermate impossibile non citare Airbnb, portale che mette in contatto persone in cerca di alloggi per brevi periodi con altre che hanno spazi da affittare. Anche se in questo caso non si può parlare di vero e proprio sharing: chi vuole affittare usa un nuovo strumento, la piattaforma web, per portare avanti pratiche tradizionali. A differenza invece di piattaforme come Standbymi che, oltre all'alloggio, offrono eventi e iniziative locali a cui partecipare “per vivere i luoghi con gli occhi di chi li abita”. BlaBlaCar, per esempio, ormai celeberrimo e sfruttatissimo, permette di condividere viaggi in auto dividendo le spese e riducendo l'impatto ambientale (car sharing). Parti da Roma e devi andare a Milano? Cerchi data e ora che ti interessano e la piattaforma ti fornisce i dati di tutti quelli che vogliono condividere il viaggio con la propria auto, indicando anche la spesa; anche “noi” possiamo, naturalmente, offrire un passaggio, cercando una o più persone che ci facciano compagnia o con cui dividere i costi. Si tratta di un sistema molto diverso da quello di Uber, che al contrario esaspera il mercato neoliberista, sfruttando però le nuove tecnologie: l'azienda fornisce un servizio di trasporto automobilistico privato tramite un'applicazione per smartphone e tablet, mettendo in contatto passeggeri e autisti ed eliminando gli intermediari. Sbarcata in Italia, Uber ha fatto e continua a far discutere, sollevando non molto tempo fa un'accesa polemica tra i tassisti.

Insomma: non tutto è davvero nuovo e realmente partecipativo: alcuni progetti hanno obiettivi di business molto tradizionali. “La sharing economy si sta espandendo a macchia d'olio e ha incredibili potenzialità, ma certo può anche avere lati per negativi – commenta Pais –. Per esempio sotto questa definizione finiscono spesso cose che di condivisione e collaborazione non hanno granché. Si tratta di fenomeni fisiologici, vista la moda del momento. Non dobbiamo farci prendere da facili entusiasmi e mantenere alta l'attenzione”. Esistono poi limiti e peculiarità tutte italiane. La nostra forte predisposizione per lo sharing si scontra infatti con la realtà: “Solo il 22% degli italiani usa con continuità queste piattaforme, contro il 25% degli inglesi e ben il 39% degli americani – aggiunge la studiosa –. Siamo comunque in linea con la media europea. Credo che questa diffidenza si debba a tre fattori principali: la scarsa diffusione e fiducia nel pagamento elettronico; un digital divide piuttosto accentuato, soprattutto nelle regioni meridionali; e, infine, una coriacea e diffusa resistenza all'innovazione. Per questo funzionano al meglio le realtà che usano Facebook, un social ‘facile’ e usato ormai da tutti e che si radica bene nel territorio”. Per Pais un esempio di questo utilizzo del social network per eccellenza viene dalle shareable cities e dalle social street, fenomeno esclusivamente italiano, e ai molti esempi di crowdfunding civico: “Sono nuove pratiche di socialità – conclude la sociologa – che hanno la possibilità di organizzarsi in modo spontaneo senza istituzionalizzarsi o diventare associazioni: nuove forme di collettività che funzionano e rifiutano di essere ricondotte a vecchie pratiche. Dobbiamo metterci in testa che questo è il futuro”.