Lavoro nero e caporalato in agricoltura. Nonostante leggi e denunce eclatanti l’illegalità non accenna a diminuire. Cgil e Flai di Salerno – territorio sul quale la questione grava in maniera pesantissima da anni – hanno messo in campo alcune proposte molto interessanti, elaborate e presentate durante un convegno organizzato su questo tema lo scorso 9 giugno proprio a Salerno. La proposta è articolata in vari capitoli che declinano, se accolte, possibili soluzioni al problema.

Contrasto alla tratta di manodopera
La forza lavoro in agricoltura è costituita in stragrande prevalenza da lavoratori migranti (nella Piana del Sele si calcola che l'80% dei braccianti sia di origine straniera): conseguentemente anche i caporali sono etnici e hanno caratteristiche particolari. “I caporali etnici – spiegano Anselmo Botte, segretario confederale della Cgil di Salerno e Giovanna Basile, numero uno della Flai provinciale – hanno arricchito il loro bagaglio delinquenziale con un nuovo elemento criminale. Oltre all’intermediazione di manodopera, al sottosalario, al lavoro nero e al controllo dei ritmi di lavoro, gestiscono anche la fase degli ingressi e sono diventati uno dei punti cardine della tratta di esseri umani. Per ogni ingresso i migranti pagano tangenti tra i 7.000 e i 10.000 euro. Moltiplicando questa cifra per centinaia di migliaia di ingressi ogni anno, ci si rende facilmente conto del giro di affari che sta dietro una pratica criminale che finisce per alimentare le mafie internazionali”.

Spesso i caporali riescono a mettere in piedi falsi rapporti di lavoro e così i migranti, una volta arrivati, restano abbandonati a sé stessi, facili prede di aguzzini senza scrupolo, ricattabili e anche privati dei documenti: di qui la loro riduzione in schiavitù. Fermare la tratta di manodopera deve rappresentare una delle priorità da affrontare. “Per questo – dicono i due sindacalisti - proponiamo alla Prefettura di Salerno di avviare una discussione per la formulazione di un protocollo d'intesa contro la tratta di manodopera nei luoghi di lavoro, la prevenzione e il contrasto al fenomeno dello sfruttamento della manodopera italiana e straniera, al quale devono aderire la magistratura, la polizia, enti locali e enti ispettivi”.

Collocamento pubblico
Dal 2011 il caporalato è considerato reato penale ed è punito con la reclusione da 5 a 8 anni e con una multa da 1.000 a 2.000 euro per ciascun lavoratore reclutato. La legge, pur caldeggiata dalla Cgil, dopo tre anni non ha prodotto risultati all’altezza delle aspettative. Non c'è nessun caporale in galera ed è in corso un solo processo per intermediazione illegale di manodopera legato a un giro criminoso di rilascio di falsi permessi di soggiorno e di ingressi illegali e di sfruttamento.

Per questo l’approccio repressivo non basta. La strada da intraprendere è anche un’altra e si chiama collocamento pubblico in agricoltura. “Il ragionamento che facciamo è molto semplice – spiegano i due dirigenti –: oggi il successo dei caporali sta nel fatto che essi hanno la capacità di smistare rapidamente la manodopera in una rete ramificata e intricata di aziende agricole. Se un'azienda agricola decidesse di rivolgersi a una struttura pubblica non troverebbe nessuno in grado di soddisfare tale esigenza. E allora riteniamo che li si debba sfidare su questo terreno: mettere in campo un'attività legale capace di soddisfare l'intricato mercato del lavoro dell'agricoltura”. Nella pratica significa: istituire opportuni dispositivi leciti di assunzione, creando un luogo pubblico, e controllato, dove si incontrino domanda e offerta di lavoro. Togliere, insomma, il terreno da sotto i piedi ai caporali. Un esempio, in questi anni c’è stato, ad Eboli. Imprenditori, sindacati e organizzazioni datoriali agricole hanno condiviso un percorso e aperto uno sportello, gestito direttamente dal Comune, nel quale far confluire la domanda e l'offerta di lavoro, secondo un protocollo che prevede una premialità per le aziende che assumono utilizzando questo canale. “Tuttavia – spiegano Botte e Basile –, anche in questo caso le cose non sono andate come avrebbero dovuto. Il sindacato ha fatto la propria parte, portando a iscrivere nelle liste del collocamento centinaia di lavoratori migranti e locali; il Comune di Eboli ha fatto altrettanto mettendo a disposizione una struttura e il personale. Chi è venuto meno agli impegni intrapresi con la sottoscrizione del protocollo sono le aziende agricole che non si sono registrate al collocamento e non hanno, di conseguenza, provveduto ad alcuna assunzione”. Tuttavia, “nonostante il fallimento di questa esperienza riteniamo che non vada abbandonata l'idea di perseguire in questa direzione, anche perché il coinvolgimento diretto dell'intera comunità avvalora la nostra tesi che il caporalato, così come tutte le forme di illegalità, è un tema che riguarda tutti e va affrontato con l'apporto di tutti se vogliamo sperare in un possibile cambiamento”. L’esperienza va dunque riproposta, “ma chiedendo il coinvolgimento anche di tutti i soggetti che compongono lo sportello unico per l'immigrazione istituito presso la Prefettura e del quale fanno parte l'Inps, l'Inail e la Direzione provinciale del lavoro”.

Trasporto e “linee agricole”
Il trasporto per raggiungere le aziende e spostarsi tra un’azienda e l’altra è un altro degli elementi che vincola i lavoratori al caporale. “Occorre intraprendere percorsi con i Comuni, la Provincia e la Regione, per individuare idonee politiche per il trasporto pubblico dei lavoratori sui luoghi di lavoro, ad esempio utilizzando le ‘linee agricole’ che in alcune regioni sono già incluse nei Piani di bacino per il trasporto pubblico”, chiosano i nostri interlocutori. La questione è complessa: si tratta, nella Piana del Sele, di spostare in 30 minuti, ogni mattina, circa 5.000 lavoratori e smistarli in 3-400 aziende. Di qui una proposta che può apparire molto radicale: “Vogliamo provare a fare una distinzione nel variegato mondo del caporalato e aprire un dialogo con quelli che dagli stessi lavoratori vengono definiti ‘caporali buoni’ e che hanno acquisito questo titolo soltanto in virtù del fatto che si fanno pagare dai lavoratori esclusivamente il costo del trasporto e non l'intermediazione e tutto il resto, e in più condividono con i braccianti il lavoro e le abitazioni, spesso molto degradate”. “Il ragionamento che facciamo è semplice – aggiungono Botte e Basile –. Una volta depurata l'attività criminale dei caporali dall’intermediazione di manodopera, possiamo usufruire della imponente ed ‘efficace’ rete di trasporto che essi possono garantire. Riciclare la loro attività criminosa e utilizzare la rete capillare dei pulmini sarebbe di fondamentale importanza per portare nella legalità la parte ‘buona’ del caporalato e, chissà, risolvere il problema del trasporto nelle aziende agricole. In quest'ottica si potrebbero prevedere anche protocolli d'intesa con il collocamento pubblico e trasferire il costo del trasporto alle aziende nella contrattazione di secondo livello”.

Azioni ispettive e marchio etico
Naturalmente, quanto proposto non elimina la necessità di incrementare una più incisiva azione di vigilanza e di ispezioni mirate delle forze dell'ordine. L'anno scorso su tre aziende ispezionate, due sono risultate irregolari. Tuttavia occorre invertire una tendenza per cui le ispezioni sono calate drasticamente: da circa 300.000 del 2009 a 220.000 nel 2014 (-27%).

Detto questo, si argomenta nella proposta, la repressione, seppur necessaria, non basta. Bisogna avere anche un approccio culturale al problema, pretendendo, ad esempio, che la grande distribuzione, i grandi marchi, si impegnino a inserire in etichetta che quella merce è stata prodotta in aziende che hanno rispettato le normative sul lavoro. Insomma: serve un marchio etico per le aziende virtuose e la promozione di iniziative di screditamento per le aziende sleali.

Il lavoro dei rifugiati
C’è poi una vulnerabilità di fondo su cui occorre intervenire, quella dei rifugiati. Che in agricoltura rappresentano la parte più fragile, la più esposta al lavoro nero che finisce per alimentare il sistema dell’illegalità. Per questo occorrerebbe accelerare i tempi per il rilascio del permesso di soggiorno. “Certo, un importante passo in avanti è stato fatto nel momento in cui la gestione dell’accoglienza fu affidata, due anni fa, alle Prefetture (prima era di competenza della Protezione Civile) che attraverso bandi di selezione indirizzate a cooperative e associazioni per l’accoglienza dei profughi smista su tutto il territorio nazionale i migranti che sbarcano nel nostro paese. – osservano i sindacalisti –. Tuttavia questo sistema esclude dalle decisioni le amministrazioni comunali dove le stesse strutture di accoglienza sono ubicate. Questo spesso crea disparità nella distribuzione territoriale nel numero di migranti e ha fatto sì che il 50% di essi, oggi, sia concentrato nelle regioni meridionali”. È per questo, concludono Botte e Basile, che “da tempo diciamo inascoltati che occorre prioritariamente coinvolgere i Comuni, i quali devono diventare gli interlocutori diretti delle Prefetture e gestire in proprio il servizio o decidere di affidarlo a strutture di accoglienza di comprovata idoneità”.