Cinque anni fa, il 23 febbraio del 2011, moriva a Oslo Luigi Di Ruscio. Poeta e scrittore, per anni collaboratore di Rassegna Sindacale, nacque a Fermo nel 1930 per poi emigrare in Norvegia nel 1957 dove lavorò quarant’anni in una fabbrica metallurgica.

Lo hanno chiamato "poeta operaio" ma la definizione è senza dubbio riduttiva. Del resto la vicenda di Luigi Di Ruscio è talmente unica che la tentazione di semplificarne la figura può essere facile e fuorviante per molti. Poeta autodidatta nell’Italia del dopoguerra, poi muratore disoccupato e militante di base nel Pci di Palmiro Togliatti, infine emigrato nel ’57 in Norvegia per acquisire lo status per lui definitivo di operaio metalmeccanico nella fabbrica fordista, Di Ruscio è stato molti uomini insieme. Molti poeti in uno.

Il ritratto firmato da Angelo Ferracuti
Lontano dall'Italia, non dalla sua lingua di Luigi Di Ruscio

Fu molto amato da Franco Fortini, Paolo Volponi, Salvatore Quasimodo, che lo definì "uomo d'avanguardia nel senso positivo, cioè della fede nell'attualità e per la violenza del discorso".


 
("Il poeta della condizione operaia", 7 maggio 2007, di Carlo Ruggiero e Davide Orecchio)


La sua lingua quotidiana era il norvegese. L’italiano lo riservava alla poesia, prodotta nell’arco di decenni nelle ore rubate al sonno e dopo la fatica diurna del lavoro. La marginalità, il lavoro in fabbrica, un orizzonte politico che il dopoguerra presto richiude, sono molti i temi della poesia di Luigi Di Ruscio. E, come ha scritto Massimo Raffaeli, la sua biografia è “senz’altro la materia prima della condizione personale ma non basta affatto a spiegare lo spessore della sua voce poetica, il ritmo e il tono inimitabile della sua pronuncia. La quale è una splendida eccezione, un’assoluta singolarità, nel panorama della poesia italiana. Non un poeta-operaio – secondo Raffaeli -, ma un poeta capace di introiettare e rielaborare la condizione operaia alla stregua della condizione umana tout court”.

Di lui Italo Calvino scrisse: "Ricorda Céline, per la volontà di scaricare nel flusso delle parole una cupa aggressività".

Nel suo ultimo libro, La neve nera di Oslo (Ediesse, 2010) Di Ruscio chiudeva un’esperienza letteraria durata oltre mezzo secolo dove vita e scrittura s’incontrano per diventare una cosa sola, mostrandoci cosa significa per uno scrittore emigrare in Scandinavia e vivere in un isolamento linguistico e sociale che è da sempre quello di tutti i migranti.

Tra i suoi libri di poesia: Non possiamo abituarci a morire (prefazione di Franco Fortini, Schwarz 1953), Le streghe s'arrotano le dentiere (prefazione di Salvatore Quasimodo, Marotta 1966), Istruzioni per l'uso della repressione (presentazione di Giancarlo Majorino, Savelli 1980), Firmum (peQuod 1999), L’ultima raccolta (prefazione di Francesco Leonetti, Manni 2002), Poesie Operaie (prefazione di Massimo Raffaeli, Ediesse 2007). Tra i suoi testi di narrativa: Palmiro (1° ed. 1986, 3° edizione Baldini&Castoldi 1996), L’Allucinazione (Cattedrale 2008), Cristi polverizzati (prefazione di Andrea Cortellessa, Le Lettere 2009), La neve nera di Oslo (Ediesse 2010).

Per colazione hanno acqua e pane
bevono molta acqua
la saliva che hanno devono sputarla sulle mani
perché il martello non scivoli
a mezzogiorno mettono nel brodo d’erbe
il solito pane nero
al coprirsi del sole se io sono pieno di malinconia
per loro è bello tornarsene a casa ridendo
sedersi in famiglia giocare con i figli
dopo dieci ore di lavoro sulle pietre
per quel poco pane e perché la moglie
continui a fare per ultimo il piatto
perché a nessuno manchi la parte