“L’‘albero di canto’ è il nome che si attribuisce a quei contadini che secondo l’opinione generale di un villaggio sanno a memoria un’infinità di melodie”. La definizione è di Béla Bartók, il compositore ungherese noto fra l’altro per le sue ricerche nel campo della tradizione popolare. Ed è questa tradizione la fonte che ispira il lavoro del giovane regista e autore napoletano Mariano Bauduin e della sua compagnia, sulla scia di Béla Bartók chiamata “Gli Alberi di Canto Teatro”.

Allievo di Roberto De Simone – con cui ha studiato quando il creatore della Gatta cenerentola dirigeva il conservatorio di San Pietro a Majella a Napoli, condividendone poi le ricerche etnomusicologiche (la compagnia degli Alberi di Canto Teatro ne cura anche gli spettacoli) –, Bauduin ha un rapporto con la musica e il canto popolare che è l’esatto contrario di quello, mera imitazione, cui una certa vulgata ci ha abituati. Un rapporto originale, fecondo, come si potrà vedere anche in Ci sragiono, prego e campo, lo spettacolo – musiche originali di De Simone, patrocinio di Anpi e Istituto Storico della Resistenza di Cuneo – in programma domenica 15 luglio al Maschio Angioino in apertura della rassegna “Estate a Napoli”. Cosa sia il canto popolare, quale la sua relazione con il presente e come riproporlo, questi i temi che, appunto, affrontiamo di seguito con l’artista partenopeo.

“Il mio lavoro muove da una convinzione – ci dice subito Bauduin –: la comune radice sia della musica colta che della musica popolare. Sono parti dello stesso albero. Paisiello e Cimarosa, 700 napoletano, ne erano consapevoli, e nelle loro composizioni si riferiscono spesso a modelli e forme della tradizione orale e popolare”.

Una tradizione, osserviamo, che ha un rapporto con il tempo e la storia – con il tempo della storia – completamente diverso da quello che innerverà in seguito la cultura operaia, quindi il canto di protesta tipico del contesto urbano-industriale.

“Il tempo della cultura popolare, come aveva ben compreso Béla Bartók, è un tempo metastorico – risponde il nostro interlocutore –. Non sentendosi accettate dalla storia grande le vecchie comunità contadine inventano una propria storia. Una metastoria, appunto, che si cerca di padroneggiare attraverso una serie di rituali, di rituali magico religiosi spiegava Ernesto De Martino, attivati mediante il canto”. Un modo per affermare la propria identità… “La propria esistenza: io canto perché esisto ed esisto perché canto. L’albero di canto, il cantore popolare, scinde il proprio io, che diventa un io collettivo, entrando in contatto con quella parte nascosta di sé che è, torniamo a De Martino, il mondo magico religioso”. Un mondo considerato irrazionale… “Irrazionale? Per i contadini, per la loro comunità, la comunità degli alberi di canto, è un mondo concreto e vero quanto la catena di montaggio di una fabbrica”.

“Completamente diverso – prosegue Bauduin – è l’universo che si rappresenta nel canto operaio. Un canto che ha una matrice, come dire?, idealistico concreta”. In cui il magismo scompare, viene confinato nel racconto dei vecchi... “Il magismo non c’è più, certo; le forme di esecuzione però si ripetono. Nelle ricerche condotte in Campania abbiamo spesso trovato canti di lavoro dei contadini, canti legati alla potatura, alla raccolta del grano e così via, contraddistinti da moduli vocali e musicali, ben precisi, le cui modalità abbiamo riscoperto poi nei canti operai. A cambiare era il testo, adattato evidentemente a una presa di coscienza politica, al sentirsi classe nel senso che a questo termine assegna la tradizione del movimento operaio. Ma i moduli musicali sono esattamente gli stessi”.

La conclusione? “La conclusione è che la cultura popolare contadina e la cultura popolare operaia, seppure in maniera inconsapevole, hanno avuto un dialogo. Il canto di lavoro del contadino, il suo canto di protesta, ‘di sdegno’, restava legato al clan familiare, alla piccola comunità, al paese; quello dell’operaio si inseriva all’interno di un orizzonte più ampio, di protesta sociale”.

Il tema della ripetizione delle modalità espressive nelle due forme di canto porta dritto al tuo lavoro, a quell’attività di recupero della tradizione popolare in cui sei impegnato. C’è un punto su cui insisti: riproporre la tradizione non significa copiare. Cosa significa in concreto? “Che il canto popolare, così come eseguito dagli alberi di canto, non si può imitare. Può servirci per elaborare un nostro modello, culturale, musicale, teatrale, che a quel canto fa riferimento. Ma senza imitarlo, ripeto, perché in questo caso avremmo un’operazione scioccamente folklorica o folcloristica”.

I due termini, folklorico e popolare, vengono usati spesso come sinonimi, ricordiamo. “Il canto popolare è legato all’attività propria di chi lo attiva – riprende Bauduin –: se mi limito a imitare testo e melodia di una tammurriata di Somma Vesuviana non faccio nessuna cultura popolare, solo folklore; quel che accadeva con il folk revival degli anni settanta, per intenderci. Il folklore è l’occhio borghese che guarda la cultura popolare; ma, senza i modelli culturali della tradizione, l’effetto è insincero. È come per il jazz: si può tramandare una tecnica, non l’interpretazione. Quello che facciamo, che cerchiamo di fare noi, con studi e prove interminabili, è appropriarci di tecniche e modelli per mettere in scena spettacoli che poi sono solo e soltanto nostri”.

Il 15 luglio va in scena il tuo nuovo lavoro: Ci sragiono, prego e campo, titolo che è una parafrasi del Ci ragiono e canto di Dario Fo, rappresentato per la prima volta nel ’66 guardando ai canti della tradizione popolare preindustriale, riproposto nel ’69 – in piena esplosione operaia – anche con i canti legati legati al nuovo contesto dell’Italia del dopoguerra e poi ancora nel ’73. Canti di lavoro, canti di protesta: sono ancora attuali?

“Sì, a patto che gli esecutori siano radicati nella società contemporanea. Sennò, ripeto, abbiamo solo un’operazione di revival; operazione nostalgicamente lontana dai problemi di una società che nel 2012 è tutta diversa. Noi recuperiamo il passato parlando al presente. Nello spettacolo iniziamo con una lettura dei condannati a morte della resistenza greca. Che fra l’altro venivano fucilati anche dai soldati italiani: siamo stati oppressori, storia spesso dimenticata. Poi cantiamo il cavaliere e la morte, tema tipicamente medievale. Poi… tutto il resto”.

Ma perché Ci sragiono, prego e campo?

“‘Ci sragiono’, perché la rivolta è sempre una follia, non è una cosa savia o saggia, sono i pazzi che fanno la rivoluzione. La ribellione è irrazionale: Shakespeare lo sapeva meglio di Brecht, che al contrario cercava di far ragionare”.

Beh, interrompiamo, per chi ritiene il Galileo una lezione unica, ci sarebbe molto da discutere; Bauduin è d’accordo, ora non c’è lo spazio per parlarne. Restiamo al titolo, dunque, e veniamo al secondo verbo: “prego”.

“Il pregare ci riporta a un altro aspetto: la protesta così come si esprime all’interno del mondo magico religioso. Se lo Stato, il governo, le istituzioni non possono aiutarmi, mi rivolgo a un ‘parastato’: la religione, i santi. Ma, attenzione, questo raccomandarmi ai santi è già denuncia. Ed è una denuncia che mi costa fatica: alla Madonna dell’Arco ci vado scalzo”.

Infine “campo”, terzo e ultimo verbo. Sembra un po’ un tirare a campare, viste le premesse: è la rassegnazione del povero cristo? “No, nessuna rassegnazione; perché nel campare, nel tirare a campare, nel sopravvivere, c’è il riso: il riso di Bachtin, rivolto verso il potente. E questo riso del campare, del sopravvivere, è diverso dall’urlo borghese”. Da Ginsberg? “Anche dall’urlo di Allen Ginsberg. Il canto della sopravvivenza è un canto forte: un canto di resistenza, un canto rivoluzionario. Tradotto nel 2012”.