Girare l’Italia per raccogliere storie di lavoro, con l’obiettivo di mettere in scena un’opera teatrale: è nato così, da un’idea dell’attrice Elisabetta Vergani, lo spettacolo “Buon Lavoro”, realizzato da Farneto Teatro, con la regia di Maurizio Schmidt. La rappresentazione, che ha ricevuto il sostegno della Cgil nazionale e lombarda, oltre che della Camera del lavoro di Milano, si compone di una serie di racconti tratti da testimonianze dirette. Gli attori si alternano sul palco, dando voce e corpo a pezzi di vita e di Paese, comici e tragici allo stesso tempo.

Esistono un prima e un dopo. Proprio come accade in una guerra. Ci sono stati anni di affermazione dei diritti, poi di negazione dell’essere umano.

«Io inizio dall’inizio», dichiara Silvino, novantuno anni, ex dipendente della Olivetti di Ivrea. Ai suoi tempi il lavoro serviva a migliorare le condizioni materiali delle persone, permettendo loro di costruire una famiglia e un futuro. La Olivetti, poi, era una realtà a sé. Una ditta dove ci si dava del tu perché tutti, progettisti e operai, concorrevano al successo della produzione. Lavorare serenamente per vivere bene, restituire al Paese più di quanto si era ricevuto: su questi principi l’azienda fondava i suoi capisaldi.

Oggi, nell’epoca dei contratti a termine e delle partire IVA, la storia di Silvino appare lontanissima, quasi fantascienza.

Eppure gli operai esistono. Non sono scomparsi, come hanno tentato di farci credere. Se vai all’Ilva li trovi. Sono confusi, isolati. Patiscono un corto circuito sociale e culturale. Da un lato c’è il problema di mantenere l’occupazione, dall’altro le morti per inquinamento ambientale causate dalle attività dell’azienda. Il momento dedicato al racconto dell’acciaieria è tra i più intensi.

«È tutta colpa della politica», dice un operaio. «Se l’Ilva si compra il Taranto, andiamo in serie A», fa un altro. «Ma in fondo, a me che me ne importa?», interviene un terzo. «Tanto sono gli altri, quelli del quartiere sotto l’Ilva, che si prendono il tumore.»

Lavoro e vita sono sempre più slegati, quando non in contrasto. Soprattutto per un giovane, il lavoro è una condanna, un’ansia perenne.

C’è chi si arrangia. Monica vende torte per celiaci, da quando è stata licenziata in seguito a un infortunio. Fatima era una schiava, costretta a lavorare diciotto ore al giorno nelle campagne alle porte di Milano. Insieme ai suoi compagni si è ribellata, ma il caporale da cui dipendeva ha trovato altre braccia, ed è tutt’ora rimasto impunito. «Quanti ortaggi ho caricato nelle macchine di poliziotti e ispettori…» ricorda.

L’Italia è ancora un dopoguerra colmo di macerie, dove la necessità non è soltanto quella di ristabilire diritti e giustizia, ma anche di raccontare quanto sta accadendo nelle nostre esistenze. “Buon Lavoro” è pieno di questo desiderio che è anche urgenza. È la fatica degli attori che diventa bravura, emozione che rende il pubblico partecipe. Perché il pubblico è fatto di persone che vivono la mancanza di occupazione, la perdita di senso, la precarietà.

Dopo essere stato rappresentato a Milano, “Buon Lavoro” viene messo in scena a Rimini, il 3 maggio, in occasione delle Giornate del Lavoro che precedono il congresso nazionale della CGIL. L’augurio è di dar vita a un vero e proprio tour nazionale, via via arricchito di nuove testimonianze. Non si tratta di un’opera teatrale conclusa, ma un’esperienza in itinere, aperta a nuovi contributi. Sul sito www.buonlavoroteatro.it è infatti possibile condividere la propria storia. Siamo tutti implicati un una nuova stagione del neorealismo.