Non che 80 euro in più al mese non facciano comodo, quando nasce un figlio, ma se questi soldi venissero investiti per la creazione di servizi rivolti all’infanzia risulterebbero ancora più utili. Il cosiddetto bonus bebè, che Renzi vorrebbe introdurre con la legge di stabilità, ha da subito attirato molte critiche. La misura prevede l’erogazione di 3642 miliardi di euro dal 2015 al 2020, da destinare alle famiglie con un reddito fino a 90mila euro l’anno – almeno per ora, perché il tetto, ritenuto troppo alto, potrebbe essere rivisto nel corso della discussione parlamentare –; in sostanza, un contributo economico per la crescita dei bambini fino ai tre anni di età.

A suscitare perplessità è il criterio con cui si è deciso di selezionare il reddito degli aventi diritto, del tutto scollegato dai parametri Isee che, lo ricordiamo, calcola la situazione economica delle famiglie, basandosi su una molteplicità di indicatori. Se poi la finalità del bonus è di contrastare il calo demografico, si passa dai dubbi alla sorpresa. In un paese dove il tasso di natalità continua a diminuire di anno in anno, mentre aumentano disoccupazione e precarietà, sarebbero ben altri gli interventi
da inaugurare.

Per Nicola Marongiu, coordinatore dell’area contrattazione sociale della Cgil, “le risorse stanziate potevano essere utilizzate in maniera diversa, anche rispetto alla dimensione degli interventi complessivi sulle politiche sociali. Per la creazione di asili nido, ad esempio, o per costruire reti a sostegno della genitorialità. Le giovani coppie si confrontano quotidianamente con problemi legati al lavoro, alla mancanza di autonomia economica e alla difficoltà di accesso alla casa. Le ineguaglianze si acuiscono sempre di più, intere zone del paese si stanno spopolando, la povertà è in aumento. Di fronte a tutto ciò, prevedere un assegno, per di più slegato dalle capacità di reddito delle famiglie, non è la soluzione”.

Ad essere contestato non è il bonus, ma la logica che sottende. Offrire una somma di denaro alle famiglie significa relegare a una dimensione privata una questione che privata non è, cui il governo dovrebbe dare una risposta diversa. Nel 2013, il numero medio di figli per donna è stato di 1,39. Tre punti in meno rispetto all’anno precedente. Nel 2012, Save the Children ha pubblicato un dossier intitolato Mamme nella crisi. Lo studio mette in evidenza il legame profondo tra la disoccupazione femminile, la mancanza di welfare e il basso tasso di natalità esistente in Italia. Incidono negativamente la scarsa qualità degli impieghi, soprattutto di quelli riservati alle donne, e l’inadeguatezza delle misure di conciliazione tra i tempi di vita e di lavoro. Se davvero si intende cambiare, è su questi temi che occorre sviluppare una maggiore attenzione. Cominciando dai servizi dedicati all’infanzia.

Il malessere che avvolge la nostra società non condiziona solo gli adulti, ma soprattutto i bambini. Guardiamo all’offerta degli asili nido pubblici e convenzionati. A livello nazionale, solo il 12% delle richieste viene soddisfatto. In alcune regioni del Nord si supera il 30%, mentre al Sud si va anche al di sotto del 3%. Negli ultimi tre anni, si è registrato un calo costante delle iscrizioni. Il fenomeno ha riguardato non solo i territori più svantaggiati, ma anche quelli meglio organizzati. Colpa delle rette – il costo medio di un asilo nido è di circa 400 euro al mese – che incidono pesantemente su bilanci familiari sempre più esigui. Se viene a mancare la sicurezza economica, con ogni probabilità si preferirà mantenere il bambino a casa. Più che una questione di scelta, in molti casi è l’unica via percorribile. Ma un bambino che va presto a scuola apprenderà più facilmente le regole dello stare insieme. Imparerà a confrontarsi, crescerà. I genitori, e in particolar modo le madri, avranno maggiori opportunità occupazionali e di realizzazione personale.

Estendere l’offerta pubblica, ricalibrando i costi, porterebbe innumerevoli vantaggi. Con i soldi del bonus bebè si potrebbero aprire mille asili, aumentando del 30% l’offerta. Senza contare che si creerebbero 12mila nuovi posti di lavoro. “Un risultato tangibile e di comune utilità. Ben diverso, dunque, da un finanziamento a pioggia, di cui sarebbero i singoli a scegliere discrezionalmente le modalità di utilizzo” commenta Federico Bozzanca, segretario nazionale della Fp Cgil.

Garanzie, servizi, sostegno pubblico: sono questi elementi a fare la differenza nella vita dei cittadini e nel destino di interi territori. Al Sud, si sottolineava, la presenza di asili nido pubblici è intorno al 3%. In Calabria, in particolare, l’investimento in favore dei servizi sociali è tra i più bassi d’Italia. A Reggio Calabria, gli asili nido coprono appena lo 0,49% della domanda. L’offerta totale ammonta a 145 posti disponibili, contro una platea potenziale di 5090 bambini, da zero a tre anni. Un deserto. Il commissariamento del Comune, avvenuto nel 2012 per mafia, ha fatto emergere tutta una serie di gravi squilibri. Sono venuti meno finanziamenti, servizi, stipendi. Tra il 2007 e il 2013, con il Piano nazionale di azione e coesione (Pac), erano stati stanziati circa 50 milioni di euro, da spendere all’interno della Regione. Con questi finanziamenti sono stati realizzati appena quattro progetti. “Non è una questione di risorse, ma di scelte politiche” interviene Alessandra Baldari, segretaria della Fp Cgil calabrese.

“I soldi bisogna saperli utilizzare. Occorre un monitoraggio, servono competenze e controlli” aggiunge. C’è un altro dato sul quale è necessario riflettere: dal 2007 al 2013 la disoccupazione femminile all’interno del territorio è passata dal 27 al 44%. In assenza di una rete di welfare, oltreché di lavoro, le donne si addossano interamente le incombenze familiari, e questo crea un grave ostacolo allo sviluppo civile e culturale della società. “Puntiamo sugli asili nido –  suggerisce Baldari –. Aiuteremmo le donne a non sentirsi schiave di un ruolo, dando un contributo alla lotta contro la disoccupazione attraverso l’attivazione di servizi per l’infanzia”.

L’Emila Romagna vanta una lunga esperienza in campo pedagogico. Storicamente, si è voluto investire nei servizi per i bambini e nel sostegno al lavoro femminile. Questa cultura si è sedimentata nel tempo, portando la regione a conquistare, oggi, un livello di eccellenza per la copertura e la qualità delle azioni educative. La presenza di asili nido sul territorio raggiunge il 33%, ma la rete di prestazioni offerte alle famiglie con bambini è anche più vasta. Cosa importante, esiste un Coordinamento pedagogico provinciale che tiene insieme pubblico e privato e detta delle linee d’indirizzo, in modo da garantire un’impostazione didattica omogenea su tutto il territorio. Che si tratti di un nido comunale o di un asilo aziendale, gli obiettivi pedagogici perseguiti sono gli stessi.

A partire dal 2015, chi intende lavorare negli asili nido dovrà avere la laurea. L’asilo non è il parcheggio dei bambini. Al contrario, è il luogo dove questi vengono educati nel rispetto dei loro tempi e delle inclinazioni che esprimono. I genitori hanno parte attiva in questo processo, venendo coinvolti insieme ai figli in diversi progetti. Il settore impiega migliaia di persone, soprattutto donne, ed è di alta qualità. Sui temi della contrattazione e della concertazione territoriale, il ruolo del sindacato è riconosciuto e valorizzato. “Il confronto non è mai venuto meno” ricorda Enrico Liverani, segretario regionale della Fp Cgil.

Nonostante l’ottimo contesto, anche l’Emilia Romagna risente di un peggioramento. Il numero dei bambini iscritti sta diminuendo a causa della rette troppo alte e della crisi economica. “Affidarsi ai nonni diventa una scelta di sopravvivenza – dice ancora Liverani –. Non è con 80 euro al mese che risolvi il problema. Anzi: in questo modo le persone vengono lasciate sole, e in più si danneggia l’occupazione. Se passa questa logica, tutto ciò che abbiamo costruito con passione e fatica rischia di disgregarsi. Dietro i servizi c’è la cultura dello stare insieme nella comunità”. “Il servizio è garanzia di occupazione, legalità, sviluppo sociale, utilizzo sano delle istituzioni” conclude.