...ma più basso delle altre offerte che aveva valutato e in più, avendoci parlato per una mezz’ora al telefono, era riuscita a farsi un’idea rassicurante del suo futuro coinquilino, un giornalista che andava per la quarantina, dai modi gentili e allegri, che cercava qualcuno per condividere le spese, che fosse, come lui stesso si era raccomandato, persona discreta, pulita e seria. “Penso di essere tutte e tre le cose”, gli aveva risposto e lui, senza darsi neanche un po’ di tempo per riflettere, l’aveva scelta su due piedi, dicendole che avrebbe fatto un ottimo affare, che la capitale era il posto giusto per cercare un lavoro serio e che non si sarebbero disturbati visto che lui, data la sua professione, era spesso fuori casa. Non appena aveva riagganciato il telefono era rimasta qualche minuto a fantasticare sulla libertà di una vita indipendente e sulle prospettive che si sarebbero aperte mettendo piede in città. Certo, per qualche tempo l’affitto glielo avrebbero pagato i suoi, ma con un po’ di impegno e con la giusta dose di fortuna che arriva, come nei film americani, quando meno te lo aspetti, sarebbe presto riuscita a risarcirli di tutti gli anni di studio che aveva portato a termine grazie ai loro sacrifici.

Il giorno tanto atteso
arrivò a fine settembre, la gente era tornata a lavorare, le scuole avevano riaperto i battenti e suo padre aveva incorniciato la sua pergamena di laurea attaccandola con un chiodo in salotto, perché tutti potessero vederla. Sua madre, che era tra i due la più apprensiva, aveva continuato a farle raccomandazioni durante tutto il tragitto da casa alla stazione, battendo il chiodo soprattutto su alcuni punti fondamentali: le brutte compagnie, il gas, il portafoglio, la strada e su altri pericoli che ora non ricordava più. Quando erano giunti ai saluti, mentre lei stava finalmente tirando su la sua pesante valigia che fino a quel momento era stata trascinata dal padre, sulla guancia scarna di sua madre era scesa un’unica lacrima, che aveva prontamente nascosto con il palmo della mano. “Mi raccomando,” le aveva sussurrato con un filo di voce, “appena puoi facci sapere del giornalista, se è serio, eccetera… e per qualsiasi cosa, chiama! Capito?”. “Ciao, Italia”, le aveva detto suo padre stringendola forte a sé, “in bocca al lupo”. Erano rimasti a guardarla mentre il treno partiva, entrambi con gli occhi lucidi, un po’ perplessi e preoccupati, ma fiduciosi.

Ivan fu puntualissimo. Non appena scese dal treno lo vide, tutto impettito e compunto se ne stava in fondo alla banchina, e neanche per un attimo fu sfiorata dal dubbio che non fosse lui. Era un uomo robusto, più basso di come se lo aspettava, con un pizzetto che lo faceva tanto somigliare a D’Artagnan. Portava un completo marrone scuro, elegante e ben stirato, da persona impegnata, e nella mano sinistra stringeva una ventiquattrore di pelle. “È vero,” le disse appena lei gli si avvicinò, sorridente e un po’ imbarazzata, “la tua valigia è proprio inconfondibile”. “Sì, ho pensato che era il dettaglio migliore per riconoscermi!”, gli rispose, e ridendo rivolsero entrambi lo sguardo alla sua valigia rosso fuoco, con al centro un grande adesivo dei Flinstones. Si incamminarono lentamente verso la metro, inghiottiti da centinaia di persone in corsa, e Ivan, che gentilmente si era proposto di portarle la valigia, iniziò a farle tutto un discorso sulle cose che doveva assolutamente sapere della capitale. “Prima di tutto ci sono passato anche io,” le disse, “e non devi preoccuparti… all’inizio è un po’ dura, ma questa città, a differenza di altre, dà i suoi frutti, io ne sono l’esempio vivente” e con una certa fierezza continuò a camminare con il mento leggermente alzato mentre sulle sue labbra sottili gli si stampava un sorriso sempre più marcato, denso di soddisfazione.

Quella sera, dopo che Ivan l’aveva aiutata a rifare il letto, mostrandole poi i suoi ripiani personali, le manopole del gas e dell’acqua e i recipienti per la raccolta differenziata, la chiamò in cucina, e con gli occhi che gli brillavano di felicità le disse: “Stasera, per accoglierti al meglio, ti preparerò del sushi, ti piace il sushi?”.
“Oh, certo. L’ho mangiato poche volte, ma mi piace molto, grazie!”. Lo osservò mentre preparava con cura i bocconcini di pesce, il riso e tutto il resto. “Abbiamo anche un’ottima bottiglia di vino bianco” le disse aprendo il frigorifero e lei, sinceramente risentita, si scusò per non aver portato niente per l’occasione. “Ma vuoi scherzare?!”, la rimproverò lui. “Tu stasera non devi pensare a niente”.

La casa era piccola ma carina. Si intuiva, dai pavimenti lucidati alla perfezione, che Ivan si era impegnato molto nelle pulizie, e nelle stanze non c’era neanche uno spillo fuori posto. Nella camera di Ivan, che le aveva mostrato quasi fosse un museo, c’erano tutti i suoi attestati da giornalista, una parete intera di libri, cataste di vecchi giornali perfettamente impilati in un angolo della stanza e, sulla scrivania, sistemata al centro di tutto, troneggiava una vecchia macchina da scrivere a inchiostro. “Usi questa per scrivere?”, gli chiese, un po’ stupita. “Eh, sì”, disse subito lui con estrema serietà, “per un giornalista l’odore dell’inchiostro è impagabile”, e tirò su col naso come se stesse assaporando il dolce profumo di una rosa. “Mah…”, disse lei, “avevo sentito dire da un mio amico che quei rulli lì non si trovano più…”.

“Ah,” rispose Ivan quasi indignato, “dì al tuo amico che non è vero. Evidentemente, non sa che per trovare quei rulli ci vogliono i canali giusti… ma si trovano ancora, eccome se si trovano”. Anche la sua stanza era carina, un po’ spoglia forse, ma in poco tempo l’avrebbe personalizzata con le fotografie dei suoi amici, del cane, dei genitori, con i libri che si era portata dietro, e con il computer e i due poster di David Bowie dei quali, da quando li aveva appesi per la prima volta a quindici anni, non si era mai stufata.  Quella sera la cena fu proprio divertente e quando poi telefonò ai suoi genitori non riuscì a contenere la sua allegria, le novità, la simpatia di Ivan e la sua gentilezza l’avevano talmente conquistata da sentirsi già a metà dell’opera e, mentre finiva di mettere a posto la sua stanza, decise che non era il caso di appendere David Bowie, così lo lasciò nel cassetto.

Durante la cena Ivan le aveva parlato della sua attività di giornalista, di questa passione “così dannata e così avventurosa” che lo aveva portato a passare intere notti fuori dal Parlamento in attesa che si sapesse di questo o quel provvedimento, di questo o quello scoop, di tutte le volte che, durante le conferenze stampa, aveva fatto domande talmente insidiose (per intenderci, da vecchia canaglia che sa il fatto suo) da mettere in difficoltà pure il più scaltro dei politici. “Quelli sono delle macchine da guerra”, aveva detto a un certo punto, “ma se, come me, sai trovare il loro punto debole, puoi passarli da parte a parte come il coltello nel burro”. Lei l’aveva guardato con due occhi grandi così, pieni di ammirazione e, in tutto quel fiume di novità e di cose mai sentite, non si era neanche accorta di essere rimasta in silenzio per tutta la serata. E comunque, in quel momento, non le era sembrato rilevante.

I giorni successivi li passò a spedire curriculum via internet e, mano a mano che continuava nella sua ricerca, si rese conto di quanto fosse difficile trovare qualcosa di vicino a ciò che aveva studiato. Sotto la voce “offerte di lavoro qualificato” le uniche parole che campeggiavano erano: agente monomandatario, venditore telecomunicazioni, sales agent, procacciatore di pubblicità e altre robe di quel genere. Allora, senza scoraggiarsi, provò a cercare direttamente sui siti delle imprese ma tutte, nessuna esclusa, segnalavano che al momento non c’erano posizioni disponibili. Per ogni annuncio, che era vagamente più interessante di altri, si prenotavano ogni giorno, come diceva il piccolo ma fatale numero a fondo pagina, dalle duecento alle trecento persone e mentre la mattina diventava sera e la sera diventava mattina, le uniche attività in cui era riuscita a cimentarsi nelle due settimane successive erano state fare la spesa, buttare la spazzatura, telefonare ai suoi cercando di non perdere la bussola, e concedersi delle lunghe e amene passeggiate senza sapere cosa fare né dove andare. Per non parlare poi di Ivan, che in poco tempo aveva iniziato a segnalare delle stranezze sempre più preoccupanti.

“Italia, puoi aprire un attimo?”, le chiese una sera, bussando forte contro la sua porta. “Non è che puoi mettermi il cartellino da giornalista? Stasera ho un incontro estremamente importante”, continuò con la voce impastata mentre un forte odore di alcol si diffondeva per tutta la stanza. “Stasera faccio uno scoop, te lo dico io”. Guardandosi allo specchio continuò ad aggiustarsi il cartellino e, dopo essersi messo il gel sui capelli, varcò il portone a grandi passi diretto chissà dove. Lo spiò dalla finestra mentre camminava barcollando lungo il vialetto, elegante come sempre, ma visibilmente alterato.

La mattina dopo, entrando in cucina, rimase a bocca aperta dall’orrore. I fornelli erano coperti da una catasta di padelle sporche, nel frigo non c’era quasi più niente di quello che lei aveva comprato e le pantofole si appiccicavano al pavimento a ogni passo. Ivan uscì proprio in quel momento dal bagno, con addosso un accappatoio bianco che chissà da quanto tempo non lavava, pieno di chiazze scure e di buchi. “Ieri notte mi è venuta una fame…”, le disse mentre lei lo squadrava dalla testa ai piedi. “Sai, ho lavorato molto”, continuò, cercando di darsi un tono, “dopo pulisco tutto, non preoccuparti”, e sparì dietro la porta della sua camera. Poco dopo era di nuovo perfetto, con il solito completo marrone e la ventiquattrore e, schizzando fuori dalla porta, uscì di casa come un ladro.

Nei giorni successivi le cose peggiorarono di brutto. Ogni mattina c’erano stoviglie sporche e macchie sul pavimento, e il frigo si svuotava alla velocità della luce. Ogni tanto Ivan lasciava socchiusa la porta della sua camera e lo spettacolo che le si presentava era sempre più drammatico: piatti sporchi sotto al letto, mozziconi di sigarette dappertutto, scatole di Maalox sparse qua e là e un tanfo talmente insopportabile da lasciare senza fiato. Di mattina, dopo aver smesso il suo sudicio accappatoio, Ivan usciva di casa come se niente fosse, e con la scusa che aveva da lavorare continuava a dire che presto avrebbe messo tutto a posto. Di notte lei aveva iniziato a chiudersi dentro la sua stanza, a chiave, e più i giorni passavano, più cominciava a capire come stavano le cose. Da quando abitava lì non l’aveva mai visto lavorare, mai che le avesse letto un articolo dei suoi, o che almeno una volta si sentisse il ticchettio della sua macchina da scrivere.

L’ultima notte, una cappa di fumo denso e soffocante la svegliò bruciandole la gola. Mentre continuava a tossire aprì tutte le finestre e corse in cucina, dove una pentola con del riso ormai bruciato continuava a ribollire. Ivan, avvolto come un baco da seta in un lenzuolo sporco di cenere, se ne stava semincosciente sul bordo del letto. Dopo aver spento il fuoco, gettando la pentola rovente sotto l’acqua fredda, andò da lui e, avvicinandosi piano piano, sentì le sue deboli parole staccarsi una dopo l’altra dalla sua bocca secca e impastata: “Ciao cara, l’hai trovato allora il lavoro?” le chiese, cercando di sorridere. “Se vuoi domani ti posso dare qualche dritta. Stasera no però, sono troppo stanco” e, chiudendo le piccole fessure che aveva al posto degli occhi, si rigirò dall’altra parte.



NOTA BIO: Caterina Carone è nata nel 1982 ad Ascoli Piceno. Autrice di documentari di creazione, ha di recente vinto il Torino Film Festival 2009 con il film Valentina Postika in attesa di partire, collabora nella stesura di sceneggiature per il cinema e continua la sua attività di documentarista.

SINOSSI: Italia si è laureata da poco e ha deciso di andare a vivere a Roma, per cercare lavoro e fortuna, come nei film americani. L’unico alloggio che trova è una piccola stanza a casa di un giornalista free-lance che, all’inizio, sembra il coinquilino ideale.