Supertreni, supertreni, supertreni! L’alta velocità è esteticamente entusiasmante, organizzativamente sublime, emotivamente rassicurante. Soprattutto in termini di psicologia nazionale. Quei musi lunghi grigi e rossi così aerodinamici ci fanno sentire dei “normali” europei, dandoci l’impressione che Milano Centrale – e perfino Napoli Centrale! – siano in fondo come Paris-Gare de Lyon, solo qualche centinaio di chilometri più a sud. Un’emozione, quella del sentirsi fra gli europei di punta – nonostante le vicissitudini ferroviariometeorologiche dello scorso dicembre –, da gustare fino in fondo data la sua straordinaria rarità. Ma si tratta di un sentimento relativamente costoso da provare. Insegno a Venezia per quattro giorni al mese e vivo a Milano. E la battaglia dei numeri è vinta inequivocabilmente dal regionale: riesci a strappare un’andata e ritorno per appena 29 euro; l’Eurostar – nella sua versione più estrema – vale un importo più che doppio: 61 euro. Il primo naviga la megalopoli padana – tre ore e quaranta minuti, generalmente quattro ore per i ritardi causati dalle doverose precedenze concesse ai supertreni –, il secondo la sorvola in poco più di due ore, ignorando città che un tempo sarebbe stato semplicemente impensabile ignorare: vicentini e bresciani devono sentirsi certamente diminuiti nel loro status quando scoprono che all’annuncio – treno in transito sul binario tre – a sfrecciare non è il solito misterioso treno merci ma un convoglio pieno zeppo di esseri umani. Ma non si tratta semplicemente di prezzi, tempi di percorrenza e interni à la Giugiaro. Ai due estremi dei 30 e rotti euro che li dividono – e che diventano naturalmente 20, 15 e 10 se si copre una distanza minore, più provinciale per così dire – stanno due mondi diversi, forse addirittura opposti, a guardarci bene dentro. E così, con il tempo, per me quella del regionale si è trasformata da necessità in scelta. Dettata dalla certezza che arrivato a destinazione, seppur stremato dall’umanità varia, densa e rumorosa che lo riempie, avrò sicuramente qualcosa da raccontare.

Prima di tutto, il décor. Che da manageriale si fa popolare, per quello che questa definizione può significare. Scompaiono i portatili – anche ad averlo, come utilizzarlo senza i tavolinetti estraibili dei supertreni? Tenerlo sulle ginocchia? Una fatica da fanatici! – e il numero di i-pod si riduce rovinosamente, diciamo a una media di uno ogni sei-sette viaggiatori: una vera e propria catastrofe per la Apple, che sulla nostra mobilità in costante ascesa ha costruito una parte consistente delle sue fortune. Così, sotto le luci ospedaliere riflesse dal blu sporco ma intenso dei sedili e schiantate dal grigio macchiato dei pavimenti, riemergono le conversazioni e le amicizie ferroviarie, sempre più rare negli ambienti leofilizzati e ad alta penetrazione tecnologica dell’alta velocità. Certo, il cellulare fa la sua parte, peraltro senza quella discrezione – tanto sospirata dai globalisti nostrani, compreso chi scrive, molto invidiosi delle silent cars britanniche e francesi – che sta finalmente avviluppando anche i nostri di supertreni, seppure dopo un decennio di lotte asprissime. Sul regionale, invece, ai cellulari non si parla ma si urla, peraltro in mille lingue diverse: rumeno, albanese, woolof, vicentino, francese e inglese africani, cinese, bresciano, spagnolo, napoletano, solo per citarne alcune. Qui gli stranieri non sono quelli patinati da anni di turismo militante, ma quelli con le mani incallosite ed espanse da anni di cantieri.

Conversazioni lunghe lo spazio di due, tre, quattro, anche cinque fermate – un Desenzano-Rovato, un Verona-Treviglio, un San Bonifacio-Brescia – e che non raramente ti fanno chiedere se all’altro capo del telefono (sull’altra sponda dell’Atlantico o più semplicemente del Garda) ci sia effettivamente qualcuno. Ma nonostante i cellulari, le conversazioni, le amicizie e anche i conflitti ferroviari prima tentennano, poi prendono velocità per trasformarsi, infine, in una marea irresistibile, capace di saltare i corridoi stretti per invadere uno, due, tre gruppi di sedili (la comunicazione inter-corridoio funziona però solo nel week-end, quando i regionali cessano temporaneamente di essere quegli inferni viaggianti per pendolari che molti di noi conoscono).

E così anche io mi trovo preso in un bel pezzo di mondo: il napoletano colto ma disoccupato e la sua fidanzata armena, la giovane coppia della provincia bresciana di ritorno da Gardaland con la propria bambina – stima della spesa totale della gita: attorno ai 100 euro, un impegno mica da ridere per i frequentatori medi del regionale –, la mamma del Burkina Faso con la sua bambina di tre anni, che parla un italiano perfetto e un veneto ancor più dolce. E si discute e ci si guarda, si ride e ci si perde nell’Altro, gettando un amo nel suo mondo che forse cambierà durevolmente, seppur di poco, la percezione che sempre degli altri ha chi questo amo, prima timido, lo ha buttato. E non c’è traccia di politically correct sul regionale tanto da – pensate – affrontare di petto il tema del colore della pelle. Sì, proprio il colore della pelle! Un vero e proprio orrore per noi progressisti color-blind! E se la bambina nata nella padanissima Romano (Bs) da genitori di Ouagadougou continua a gridare “Io sonomarooone, marooone maroooone!”, i coniugi bresciani confessano a sua madre di non riuscire a distinguere i popoli dell’Africa sub-sahariana fra loro. “A noi voi sembrate tutti uguali, come si fa a distinguervi?”, dicono. “Anche voi, gli spagnoli e gli inglesi sembrate tutti uguali, non vediamo la differenza…”, risponde lei (scetticismo dei coniugi bresciani). E se il giovane disoccupato discetta dolorosamente di neorealismo (di nuovo perplessi i coniugi bresciani e anche, seppur più compostamente, la fidanzata armena) – “Ho in mente un soggetto per l’Italia della recessione: un tizio chiede a un altro: scusi ma quanto sono resistenti le scarpe che indossa? Perché per me sono un investimento, come lo era l’automobile in passato…” – la nostra vicina cinese tenta di farci capire che deve scendere a Rovato e non a Romano, un’assonanza che nasconde un buco di almeno venti chilometri.

Il tutto rotto dal vociare di un gruppo sterminato di adolescenti che, grandi e grossi, fanno rimbalzare i sedili con i loro movimenti ritmati dalla voglia di parlare, di intervenire, di stupire. Si parla di alcol e se ne beve altrettanto, in un crescendo di aneddoti sulla loro ipermobile socialità extraurbana che solo un ingenuo definirebbe provinciale, fatta di muretti, pub e scuole poste agli estremi opposti di un bel pezzo di pianura. Di fronte a loro, immobili e attente, due signore anziane il cui stordimento nella babele etnico-generazionale che le circonda è sereno ma certo evidente. Cercano di lamentarsi – “tirate su il finestrino (già, sul regionale, i finestrini possono essere ancora alzati e abbassati), abbassate la voce, non siate così sboccati” – con successo variabile ma tutto sommato non trascurabile. E come se non bastasse, i bambini sul regionale non sono solo più numerosi che sui supertreni ma corrono su e in giù. Proprio come si faceva noi sui rapidi degli anni ottanta.

Ma dietro alla fantasia e alla dolcezza di fugaci amicizie ferroviarie si nasconde il dilemma del come fare a convivere quando le differenze aumentano e le certezze si sciolgono. E si capisce come la pianura che scorre fuori dal finestrino assomigli molto al mondo di questo treno vecchio, sporco e lento che la attraversa. Un mondo fatto di villaggi rurali ora trasformati in capitali migratorie – nella già citata Rovato salgono solo immigrati –, di sogni suburbani alla padana che producono pendolarismi esasperati e, soprattutto, di popolazioni diverse che si trovano a coabitare in spazi angusti, talvolta addirittura più angusti delle loro rappresentazioni del mondo. Adolescenti extraurbani o sarebbe meglio dire iper-urbani, immigrati occupati con le loro famiglie oppure soli e disoccupati, anziani nostalgici e confusi, famiglie operaie native: tutti mondi diversi, dalla definizione certo parziale e arbitraria, che si scrutano, si annusano, talvolta si temono e si affrontano. Sono loro a fare un bel pezzo di quella città infinita di cui ci parlano sociologi e urbanisti.

Ed è dalla quantità e qualità delle relazioni che si stabiliscono fra loro che dipende un pezzo altrettanto grande del futuro del paese intero. Ma la convivenza è un’arte difficile, soprattutto se non l’hai scelta e se la competizione per risorse che si percepiscono sempre più scarse si fa allo stesso tempo sempre più acuta. E allora si scopre che alla questione settentrionale si può guardare con occhi diversi da quelli con i quali – impotenti – ci siamo abituati a guardarla in questi anni.

Un Nord incompreso non solo per la distanza della sinistra dei sempre richiamati ceti produttivi, ma anche per la sua incapacità di guardare con intelligenza e curiosità fra questi mondi. Non per incassare i dividendi di una politica della paura, ma per costruire una politica del rispetto, per dirla alla Richard Sennet. E non di quello astratto e tutto sommato indifferente predicato da tanta borghesia benpensante, ma di quello concreto prodotto da una nuova forza popolare che parli di eguaglianza e di progresso. Ad essere in gioco, negli spazi angusti e dispersi della città infinita, è il senso di una dignità troppo spesso perduta in un mondo che si fa irriconoscibile. La paura è una risposta: a noi l’alternativa. Partecipare alle assemblee di Assolombarda è doveroso, ma poche situazioni ti aiutano a capire il Nord e il suo popolo quanto un affollato, rumoroso ed eclettico regionale trans-padano.

(Il Mese, gennaio 2010)