Chissà se la pausa nelle trattative per quasi dieci giorni avrà portato qualche ripensamento ai nuovi acquirenti dell’Ilva. Se lo chiedono soprattutto i sindacati, che oggi (lunedì 23 aprile) riprendono il negoziato a Roma, presso la sede del ministero dello Sviluppo economico, con governo e AmInvestco. Fiom Cgil, Fim Cisl e Uilm Uil ribadiscono la propria posizione: risanamento ambientale, mantenimento produttivo, continuità contrattuale e soprattutto nessun licenziamento. Finora da parte di Arcelor Mittal e Marcegaglia (che però dovrebbe uscire dalla società) non vi è stata alcuna apertura sulla questione degli esuberi, l’augurio è che la pressione sindacale cominci a dare i frutti sperati.

A disegnare nuovamente il perimetro del negoziato ci ha pensato il viceministro Teresa Bellanova, che sta seguendo la vertenza fin dall’inizio (ossia dal luglio scorso), alla fine dell’ultimo incontro (di venerdì 13 aprile). Per l’esponente del governo “le premesse condivise originariamente e per me inderogabili sono la tutela del lavoro e dei lavoratori, la tutela dell'ambiente, la tutela della salute e il rilancio della siderurgia italiana”. Sono queste, ha aggiunto, “le priorità indiscutibili da cui dobbiamo essere capaci di non derogare, affrontando e sviscerando ogni aspetto come stiamo facendo, punto per punto e approfonditamente”.

Arcelor Mittal, intanto, ha presentato alla Commissione europea l'insieme delle cessioni che la società farà per rispondere alle preoccupazioni dell'Antitrust Ue, in modo da ottenere il via libera all'acquisto dell’Ilva. Saranno venduti l’impianto Magona di Piombino (unico sito di acciaio galvanizzato di Arcelor Mittal in Italia), gli stabilimenti di Galati (Romania), Skopje (Macedonia), Ostrava (Repubblica Ceca) e Dudelange (Lussemburgo), alcune linee di produzione di Liegi (Belgio), oltre all’uscita dal capitale del gruppo Marcegaglia. Una proposta che dovrebbe ottenere il via libera della Commissione, che darà la sua definitiva risposta entro il 23 maggio. La Commissione ha anche voluto precisare che “non impone cessioni di attività specifiche, ma analizza quelle proposte dalle imprese e valuta se rispondono alle preoccupazioni identificate dalla concorrenza”, assicurando inoltre “che ogni asset ceduto continui a esercitare concorrenza sulle aziende che si fondono”.

Tornando ai temi in discussione nell’incontro odierno, per ora l’intesa non sembra vicina. Il nodo sono gli esuberi: i sindacati puntano a salvaguardare tutti i 14 mila dipendenti, mentre AmInvestco ne vuole assumere solo 10 mila. Riguardo gli assunti, c’è un’altra questione da risolvere: i sindacati vogliono la continuità normativa e retributiva (quindi con i medesimi stipendi precedenti), mentre gli acquirenti spingono per la discontinuità dei rapporti di lavoro. Su quest’ultimo punto, però, un compromesso sembra raggiungibile, mediante il mantenimento delle condizioni esistenti per quanto riguarda la parte fissa derivante dal ccnl (anzianità di servizio, livelli retributivi, istituti presenti in busta paga) e variazioni sulla contrattazione di secondo livello. Dunque: discontinuità nella forma, ma non nella quantità e nella sostanza.

E una soluzione andrà trovata anche per i lavoratori dell’indotto Ilva, circa 2.500 addetti alle mansioni più diverse (dalla ristorazione ai servizi come le pulizie, dai trasporti all’edilizia). “A questi lavoratori non viene riconosciuto il diritto di essere rappresentati al tavolo istituzionale”, spiegano i sindacati, denunciando anche “disinteresse e apatia” nei loro confronti. Sono lavoratori, concludono le rappresentanze, che si sentono abbandonati e in balia delle future logiche di mercato, dei cambi di appalto o delle assegnazioni di commesse al massimo ribasso, e che temono fortemente le possibili riduzioni orarie e reddituali, se non addirittura l’estromissione dal perimetro della nuova Ilva.