Le cattive abitudini di Inps riaffiorano. Si avvicina il responso dell’Istituto previdenziale pubblico sulle oltre 60 mila domande di Ape sociale (15 ottobre) già presentate ma, considerando il numero di quelle respinte, l’appuntamento rischia di svelare amare sorprese per chi ne ha fatto richiesta.

Numeri ufficiali non ce ne sono ma, assicura l’Inca, sono tutt’altro che irrisori. Secondo il Patronato della Cgil, ancora una volta, l’Istituto previdenziale pubblico si rende protagonista di interpretazioni eccessivamente restrittive delle norme, tali da ridurre in modo consistente il numero dei beneficiari dell’indennità Ape sociale a 63 anni di età, anche se sono nelle condizioni di particolare fragilità occupazionale. Un flop ampiamente prevedibile, secondo Inca, “a causa delle eccessive rigidità imposte da Inps, in contrasto con le intenzioni del legislatore e in alcuni casi addirittura contro legge, che rischia di vanificare del tutto le pur magre aspettative di reinserire qualche elemento di flessibilità nel sistema previdenziale italiano, più volte richiesto unitariamente da Cgil, Cisl e Uil”.

Con motivazioni diverse, in contrasto con le disposizioni della norma e del decreto applicativo relativo all’Ape sociale, il rigetto delle richieste da parte di Inps è tutt’altro che circoscritto a casi isolati. L’Inca, nell’analizzare le diverse segnalazioni che arrivano dal territorio, ne elenca alcune. La prima riguarda l’applicazione del requisito di riconoscimento dello stato di disoccupazione, indispensabile per poter anticipare il pensionamento a 63 anni. La norma stabilisce che possono fare domanda coloro che risultino in stato di disoccupazione a seguito di licenziamento, dimissioni per giusta causa o risoluzione consensuale (art. 7 della legge 604/1966) e senza ammortizzatori sociali da almeno 3 mesi.

Traduzione di Inps: anche un solo giorno di rioccupazione, retribuito con voucher, successivo a tale periodo, fa perdere il diritto all’indennità Ape sociale, nonostante tale interpretazione confligga con quanto disposto dall’articolo 19 del d.lgs 150/2015, laddove si precisa che “sono considerati disoccupati i soggetti privi di impiego che dichiarano, in forma telematica, al sistema informativo unitario delle politiche del lavoro (…) la propria immediata disponibilità allo svolgimento di attività lavorativa e alla partecipazione alle misure di politica attiva del lavoro concordate con il centro per l'impiego”.

Secondo il Patronato della Cgil, “l’Inps nel respingere le domande trascura le caratteristiche peculiari dei compensi percepiti a titolo di lavoro occasionale di tipo accessorio che, sin dalla sua prima formulazione normativa, è sempre stato un reddito esente da imposte, che non incide sullo stato di disoccupazione. Pertanto, il lavoratore che abbia reso la propria disponibilità all’attività lavorativa e alla partecipazione alle politiche attive, come vuole la norma, e che abbia i requisiti contributivi e anagrafici per l’Ape sociale (63 anni di età e 30 anni di contributi) ha diritto a tale indennità”.

Il principio cui si ispira l’Inps per giustificare il rigetto delle richieste, invece, è quello secondo il quale il lavoratore perde lo stato di disoccupato anche per un solo giorno di lavoro svolto successivamente ai tre mesi di fruizione degli ammortizzatori sociali.

Coerente con questa stessa rigidità sta respingendo le richieste di coloro che hanno svolto, dopo il periodo di percezione dell’ammortizzatore sociale, qualsiasi attività, anche se retribuita in misura inferiore ai limiti previsti per il mantenimento dello stato di disoccupazione. Una contraddizione palese “irrazionale e contraddittoria”, secondo l’Inca, considerando che l’indennità Ape sociale, per espressa previsione di legge (art. 8 del Dpcm n. 88 del 23 maggio 2017), è compatibile con la percezione dei redditi da lavoro dipendente o parasubordinato nel limite di 8.000 euro annui e dei redditi derivanti da attività di lavoro autonomo nel limite di 4.800 euro annui. A queste evidenti contraddizioni di Inps, il patronato della Cgil denuncia anche casi di richieste respinte addirittura “senza o con motivazioni generiche”, comunque tali “ da non consentire al lavoratore di difendersi in modo adeguato, nonostante il sacrosanto diritto del lavoratore di conoscere con precisione le motivazioni per poter chiedere un eventuale riesame della richiesta di Ape sociale”.

Analoghe segnalazioni di domande respinte provengono da lavoratrici e lavoratori licenziati, che non hanno potuto beneficiare dell’ammortizzatore sociale perché non avevano maturato i relativi requisiti o, più semplicemente, perché non avevano presentato domanda entro il termine di decadenza. La situazione si complica ancora di più per le categorie dei lavoratori addetti ad attività gravose e rischiose, le cui richieste di Ape sociale (anch’esse in gran parte respinte) devono ricevere il nulla osta sia del ministero del lavoro sia dell’Inail. Di tutto questo, nelle risposte dell’Inps, denuncia Inca, “non c’è traccia”. “Le motivazioni indicate dall’Istituto sono talmente generiche da costringere gli operatori del Patronato della Cgil ad avviare una indagine approfondita per risalire alle ragioni del rigetto della domanda. Ed è evidente che questa corsa ad ostacoli rende praticamente impossibile per il lavoratore poter chiedere nei tempi giusti (entro 30 giorni) il riesame della domanda respinta”.

Analogamente sono state bocciate le richieste di Ape sociale da parte di chi ha contribuzione versata in paesi esteri per effetto di una interpretazione fornita da Inps nella circolare applicativa n. 100/17 e ribadita nel messaggio del 31 luglio scorso, secondo la quale non si possono totalizzare i periodi assicurativi italiani con quelli maturati in Paesi Ue, Svizzera, See o extracomunitari, convenzionati con l’Italia. Secondo l’Istituto previdenziale le richieste non possono essere accettate perché l’Ape sociale è una indennità di natura assistenziale e non un anticipo pensionistico, come invece ha voluto intendere il legislatore. “Una interpretazione che – spiega l’Inca – non tiene conto dell’articolo 6 del regolamento 883/2004, laddove si afferma che ogni qualvolta uno Stato membro subordina il diritto ad una prestazione alla maturazione di periodi di assicurazione, di occupazione, di lavoro autonomo o periodi di residenza, deve tenere conto dei medesimi periodi maturati sotto la legislazione di ogni altro Stato membro, come se si trattasse di periodi maturati sotto la legislazione che essa applica”. Questioni, quest’ultime, già da tempo sollevate da Cgil, Cisl e Uil nel documento unitario presentato al Governo per l’avvio della “fase due” del confronto sulla previdenza.