Anche in Italia la sharing economy è viva e cresce. Lentamente, ma cresce. Mentre il dibattito internazionale si esercita nell’analizzare un fenomeno vario e in mutamento, sono divenuti ormai una realtà e si diffondono anche da noi i servizi che sfruttano la collaborazione “tra pari”, peer to peer, mettendo in contatto le persone attraverso piattaforme tecnologiche e facilitando l’incontro tra chi offre una risorsa che possiede con chi la vuole usare. Oggetto della condivisione, dello scambio e della vendita sono beni, spazi e servizi, ma anche prestazioni, competenze e tempo.

E oggi anche il lavoro è divenuto un vero e proprio bene da scambiare, ma soprattutto da condividere: skill sharing si chiama. E accanto al lavoro c’è anche la formazione. Questi dati vengono dall’ormai annuale mappatura delle piattaforme collaborative italiane, realizzata dalla sociologa Ivana Pais per il laboratorio di ricerca “Collaboriamo”. La mappatura prende in considerazione solo una porzione del fenomeno delle pratiche che – conosciute, appunto, sotto l’etichetta di sharing economy – prendono, di volta in volta, la forma di cohousing, coworking, open source, social street.

Oggetto dello studio sono le piattaforme di collaborazione tra pari, quelle che non erogano servizi dall’alto in basso, stabilendone un piano e selezionando il personale, ma abilitano le persone, consentendo una partecipazione di tipo professionale o saltuaria, e nelle quali la collaborazione avviene tramite un sistema di reputazione, cioè di valutazione dell’esperienza. Si tratta di realtà nate in Italia, oppure di sedi italiane di iniziative straniere. Dal 2014 sono aumentate del 25%, ma le estere più delle nazionali, che anzi sono in leggera flessione: dall’83 al 78%. L’indagine 2015 le divide in 12 settori: ci sono i trasporti (22, ovvero il 18,6%), il turismo e l’accoglienza (presenza cresciuta, dal 10 al 15%), lo scambio e la condivisione di beni di varie tipologie. Nuova entrata di quest’anno è la categoria della cultura, con 10 servizi (9%).

Le piattaforme che promuovono la condivisione delle competenze sono in tutto 9 (8%). I servizi sotto l’etichetta lavoro vanno distinti in base alla modalità di remunerazione della prestazione che viene offerta: da una parte, ci sono le piattaforme che mettono in contatto chi offre e chi cerca piccoli lavori in cambio di una remunerazione in denaro (Chimiconsigli, Gli Affidabili, Makeitapp, Minijob, Solvercity, Tabbid, Upwork, Croqquer); dall’altra, chi – come Timerepublic – adotta il modello della banca del tempo: lavoro in cambio di tempo o di crediti. I servizi alla persona aiutano a trovare una baby sitter (Le Cicogne, Mystarsitter, Oltretata, Sitterlandia) o una badante referenziata, mentre ci sono diverse piattaforme dedicate alla cura degli animali domestici. Su Fluentify privati non professionisti si propongono per dare lezioni di lingue straniere.

Sei sono le piattaforme di servizi alle imprese (4%): si va dall’affitto di spazi per eventi o di lavoro ai servizi di consulenza (Oxway, Thinkalise), mentre Zooppa e Appsquare mettono in contato le aziende con creativi e grafici. Anche le piattaforme che “facilitano” la formazione sono sei e rappresentano il 5%: Teach4learn, che consente a chiunque pensi di saperlo fare la pubblicazione di una propria lezione a pagamento; Docsity, su cui si possono pubblicare appunti, dispense, tesi;  Testiusati, per lo scambio di testi scolastici tra privati o tra scuole. La forma giuridica scelta dai fondatori delle piattaforme consente di individuarne solo due costituite come cooperativa, mentre più della metà sono Srl: segno che esiste ormai un progetto imprenditoriale dietro alla vocazione sharing.

È un mercato senza leader e in pochi ancora hanno un giro d’affari significativo. Solo il 7% ha oltre 500 mila utenti, il 31% si attesta tra 500 mila e 1.000, il 20% ne ha meno. Lo stesso vale per il giro degli scambi: appena il 4% è oltre 100  mila e il 68% arriva fino a 1.000. Tra le piattaforme censite, il 4% opera in ambito locale, l’8% nazionale, il 12% europeo e il 4% internazionale; ma si tratta, nei due ultimi casi, delle sedi italiane di piattaforme straniere. Quale sia la formula per crescere, ancora non è chiaro: se attualmente il dibattito, anche in Italia, sull’onda di Uber o di Gnammo, si concentra sulle regole, per gli imprenditori prima di tutto sono i finanziamenti che servono allo sviluppo dell’economia collaborativa. Lo sostiene il 73% dei promotori delle piattaforme mappate. Solo il 16% punta sul quadro normativo e, chi lo fa, pensa che più regole potrebbero creare un clima di fiducia intorno alla sharing economy (le stesse regole che, invece, da molti sono temute).