Sono pesantissime le richieste di condanna formulate ieri (3 febbraio) al processo Aemilia, che si sta svolgendo a Bologna e nell’ambito del quale i sindacati si sono costituiti parte civile. L’accusa, a conclusione della requisitoria, ha auspicato pene “esemplari”, in molti casi fino a 20 anni, per tutti i 71 imputati. Al centro dell'inchiesta, che a gennaio 2015 portò a decine di arresti in tutta l’Emilia Romagna, un'organizzazione criminale che, seppur legata alla famiglia Grande Aracri di Cutro, agiva con forza autonoma. Gran parte dei vertici dell’associazione hanno optato per il rito abbreviato, mentre altri 167 imputati saranno giudicato con un processo ordinario che avrà inizio a Reggio Emilia a marzo prossimo

La vicenda del processo Aemilia è un’importante occasione per riflettere sullo stato dell’attività mafiosa nel Paese, ormai omogeneamente distribuita da Nord a Sud, ma anche per interrogarsi in profondità sulla vita economica del nostro territorio, sempre più prigioniera di iniziative di stampo criminale. Certamente, l’esistenza di un’economia sommersa non costituisce una novità in Italia, che da tempo convive con un alto tasso di “fuga” dall’economia formale, ossia da quella parte della sfera economica composta da imprese registrate, regolamentate e controllate. Tuttavia, negli ultimi anni, abbiamo assistito a un incremento quantitativo del numero di casi di infiltrazione mafiosa, ma anche a una trasformazione qualitativa dell’iniziativa dei clan, sempre più capace di muoversi a cavallo tra le due sfere dell’economia, quella formale e quella criminale.

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Per molto tempo (e con una buona dose di pregiudizio) quella mafiosa è stata descritta come un’economia parallela, fortemente legata al sottosviluppo del Sud italiano, e caratterizzata da attività quali prostituzione, traffico di droga, corruzione e quant’altro. Nonostante esse continuino a costituire il core buisness dell’iniziativa mafiosa, il crescente desiderio di “conquista” di spazi di iniziativa da parte delle mafie, da un lato, una sempre maggiore vulnerabilità delle imprese determinata da un andamento economico sempre più instabile, dall’altro, ci impongono un ripensamento delle relazioni che intercorrono tra le due sfere. L’economia criminale non è infatti una sfera a se stante, separata e indipendente, ma intreccia a più riprese lo spazio dell’economia formale, infiltrandosi proprio tra gli interstizi aperti dalle fluttuazioni del ciclo economico, sfruttandoli per perseguire interessi illeciti.

Pertanto, come osserva un’ampia letteratura sociologica disponibile in materia, l’intensità del legame che si è venuto a costituire tra le diverse sfere economiche, fa sì che l’analisi delle attività criminali non possa essere condotta senza osservare ciò che accade nello spazio dell’economia formale. Non è del resto una mera casualità se i fatti di Aemilia emergono proprio nell’attuale congiuntura economica, ancora pallidamente illuminata dalla ripresa e alle prese, a tutt’oggi, con gli effetti di una crisi che ha desertificato interi settori produttivi. Come emerge dall’Osservatorio regionale Ires Emilia Romagna, proprio l’edilizia, il settore maggiormente colpito dall’iniziativa delle cellule emiliane collegate al clan ’ndranghetista del boss Nicolino Grande Aracri, sembra essere uno dei settori che più ha sofferto gli effetti della crisi. A farne le spese sono in particolare le piccole imprese, le quali restano schiacciate, da un lato, dalla scarsità di domanda e, dall’altro, dalla crescente difficoltà ad avere accesso al credito, rendendo così i piccoli imprenditori una facile preda dell’espansione dell’iniziativa mafiosa.

La correlazione tra gli andamenti economici territoriali e l’esplosione della più grande inchiesta mafiosa sul territorio emiliano-romagnolo (e dell’intero Nord) ci permette dunque di tratteggiare un quadro che affonda le proprie radici non nella dimensione individuale e imprevedibile del comportamento criminale, bensì in una dimensione sistemica e, pertanto, prevedibile e risolvibile. Spesso, quando si parla di mafia, si tende a sottovalutare l’aspetto seduttivo delle organizzazioni criminali, dovuto all’ampia disponibilità di capitale liquido proveniente dalle attività illecite, che – facendo leva sulla vulnerabilità delle imprese – ne cattura una porzione sempre più ampia all’interno della rete criminale.

Sembra essere questo il caso della vicenda Aemilia, che registra i primi avvenimenti nel 2004, ma che ha tra il 2010 e il 2013 il suo momento di massima espansione, proprio in occasione del sisma che ha colpito l’Emilia. Le iniziative registrate, infatti, non riguardano solo false intestazioni di aziende, controllo degli appalti o iniziative intimidatorie, ma anche una serie di complicità con imprese storiche che hanno attinto alle risorse messe a disposizione dai clan. L’iniziativa mafiosa, secondo quanto riportato nella documentazione che ha dato avvio al processo, procedeva secondo due strade: da un lato, la mobilitazione di grandi quantità di capitale proveniente dalle attività illecite, che sfruttando la logica del massimo ribasso portava le aziende mafiose ad avere un vantaggio strutturale nei confronti delle altre (avendo esse finalità di altro genere rispetto alla semplice iniziativa economica); dall’altro, rilevando aziende storiche del territorio ormai ridotte sul lastrico dagli effetti della crisi.

Un’ulteriore caratteristica dell’iniziativa mafiosa in Aemilia riguardava il controllo dell’accesso al lavoro, inteso sia come selezione della manodopera, sia come governo delle opportunità di impresa che escludeva, finendo per strozzarle, le aziende non collegate al clan. Non solo: in alcuni casi è stato registrato come nelle aziende rilevate dalla ’ndrandgheta veniva completamente sostituita la manodopera con persone affiliate al clan, mentre a molte imprese del territorio è stata imposta l’assunzione di persone gradite, nonché l’utilizzo di materiali provenienti da fornitori anch’essi legati alla ‘ndrangheta. A essere violato, però, non è stato solo il diritto al lavoro inteso come possibilità di libero accesso, ma anche il diritto a un lavoro degno, secondo quanto garantito dalla Costituzione all’articolo 36 ancora prima che dalla contrattazione.

Va da sé che non solo l’infiltrazione mafiosa metteva a repentaglio la sopravvivenza delle imprese oneste in un contesto dominato dall’illegalità, ma rendeva impossibile quella coniugazione tra lavoro e libertà che caratterizza ogni società democratica. Le intimidazioni e le violenze nei confronti dei lavoratori e delle imprese del territorio sembrano tuttavia configurarsi come pratica ricorrente anche verso coloro che, pur non essendo direttamente coinvolti nell’iniziativa criminale, non accettavano di sottomettersi al controllo dell’organizzazione criminale, annichilendo di fatto ogni possibilità di denuncia o di sindacalizzazione. In altre parole, i meccanismi di comando sulla forza lavoro all’interno delle imprese infiltrate dall’attività mafiosa sembravano essere basati sulla rottura dei legami sociali, ciò al fine di garantire alle organizzazioni criminali consenso e stabilità nel tempo. Non sorprende dunque la totale assenza di denunce nei confronti di quanto stava accedendo in una regione pur caratterizzatasi nella sua storia per una cultura del lavoro e della trasparenza.

Ma Aemilia rappresenta un evento significativo soprattutto perché, per la prima volta in un processo contro la mafia al Nord, i sindacati hanno deciso di costituirsi parte civile. Sebbene formalmente l’ammissibilità delle associazioni sia stata riconosciuta nei processi contro la criminalità organizzata da più di vent’anni, è questo uno strumento purtroppo ancora scarsamente utilizzato. La scelta di costituirsi parte civile appare invece motivata e doverosa da parte di organizzazioni che fanno della trasparenza, della solidarietà e della lotta alle disuguaglianze i fini della propria iniziativa, ma va sottolineata perché conferisce un valore ancora più significativo all’azione della magistratura, sempre più necessaria, ma purtroppo assolutamente non sufficiente.

Le economie criminali, come ci dimostrano in ultimo le vicende di Aemilia, prosperano nella desertificazione economica e sociale, e il momento storico che stiamo vivendo non lascia più nessuno al riparo dall’infiltrazione mafiosa. La crescita dell’economia illegale è, dunque, una questione che riguarda tutti, ma a partire proprio dal mondo del lavoro che più di tutti subisce gli effetti delle logiche mafiose. L’auspicio, come detto da Libero Mancuso in occasione dell’udienza preliminare, è che la scelta dei sindacati rappresenti l’inizio di una mobilitazione dentro e fuori i tribunali, con la consapevolezza che il migliore antidoto all’infiltrazione criminale è una società giusta, solidale e rispettosa dei diritti del lavoro.

Marco Marrone, Università di Bologna