“Succede che ti ritrovi a fare interruzioni di gravidanza tutta la vita. E non è bello”. Giancarlo Petricone lavora come ginecologo nella Asl di Ostia, quella che comprende anche il policlinico Di Liegro – per capirci, una delle più “popolose” in città – e nel tempo ha visto “cedere” molti colleghi. “Alcuni diventano obiettori perché non ce la fanno più. Sono pochi e fanno troppe cose”. Chi non obietta, nel Lazio – che è tra le regioni con il più alto numero di obiettori, ben il 90 per cento – è penalizzato. Il provvedimento appena emanato dal governatore della Regione Zingaretti, che obbliga tutti i medici dei consultori a prescrivere pillole del giorno dopo e certificati per l’interruzione volontaria, non elimina certo il problema, ma ha riportato l’attenzione su un tema cruciale sia per i diritti delle donne sia per quello di medici e ostetriche a condizioni di vita dignitose.

“Quando non obietti in un ospedale con un così alto numero di colleghi che lo fanno, ti senti in un ghetto – continua Petricone –. Sai che rischi di fare la stessa cosa per tutta la vita, mentre un ginecologo vorrebbe anche ‘far nascere’, per esempio. A questo aggiungi che le tue pazienti, a differenza dei tuoi colleghi, non ti saranno mai grate. Anzi, non ti cercheranno mai più, visto che le ricordi un periodo molto brutto e da dimenticare. Come medico, certo, non ti aspetti riconoscenza: abortire per una donna non è una scelta fatta a cuor leggero, ma una necessità ed è vissuta con dolore”. A questo si aggiunge che l’età media dei medici romani e laziali in genere è alta, 57 anni.

“È colpa del blocco del turn-over
– spiega il ginecologo –. Da noi il medico più giovane ha 45 anni e può capitare che, andando avanti con l’età, uno decida di obiettare perché, semplicemente, non ce la fa più, vuole fare un lavoro più tranquillo”. Anche questo spiega la presenza, in tutta Italia, di ben il 70 per cento di medici obiettori. “Inoltre è mortificante non poter trasmettere la propria esperienza a un collega più giovane – prosegue il medico –. Io, per esempio, non so a chi trasferire le mie conoscenze da ginecologo, non ho nessun giovane a cui insegnare. Nel giro di qualche anno ci sarà un grande problema di quantità di personale negli ospedali e allora sì che ad obiettare saranno molti di più”. Senza contare, poi, che praticare un aborto è rischioso anche dal punto di vista medico-legale, ci spiega Petricone: “I pericoli sono tanti, si tratta di un intervento non scevro da complicanze. Bisogna poi aggiungere che non c’è alcuna gratificazione economica. Se almeno si fosse pagati di più, chi decide di svolgere questo lavoro per anni si potrebbe trovare uno stimolo maggiore nei momenti di cedimento. Quelli in cui vorresti obiettare perché non ce la fai più a fare sempre la stessa cosa”. Sulla nuova legge di Zingaretti, Petricone è netto: “Non ha senso l’obiezione in consultorio, visto che devi solo certificare la volontà della donna e non praticare l’intervento. Il fatto, però, è che questo provvedimento non basta, bisognerebbe pensare a chi lavora da anni in condizioni difficili, permettere un maggior ricambio generazionale, occuparsi di contraccezione ed estendere la pillola abortiva (RU 486) in un numero maggiore di centri, facilitando i tempi per l’accesso”.

In Italia
Problemi di questo tipo sono presenti, seppur con gradi diversi, in tutte le regioni del paese. Secondo l’ultima Relazione annuale sulla legge 194/78 riportata in Parlamento dal ministero della Salute, Beatrice Lorenzin, il motivo che spiega la sempre crescente difficoltà delle donne a praticare l’Ivg non sarebbe l’obiezione di coscienza (che pure è salita del 17,3 per cento dal 1983 ad oggi) ma un’inadeguata distribuzione del personale nelle strutture delle varie regioni. “I dati della relazione – ha affermato il ministro – indicano che relativamente all'obiezione di coscienza e all'accesso ai servizi la legge ha avuto complessivamente una applicazione efficace. Stiamo lavorando per verificare, insieme alle Regioni, la presenza di eventuali criticità locali per giungere al più presto al loro superamento”.

Eppure anche le regioni dove le criticità sono poche, come la Liguria, hanno visto aumentare gli obiettori. “Nella nostra città non ci sono problemi di accesso per le donne che vogliono praticare l’interruzione volontaria – spiega Luigi Canepa, che fa il ginecologo nel capoluogo ligure da anni –. Tuttavia la frustrazione di chi pratica aborti aumenta, visto che la prevenzione, l’informazione e l’educazione sessuale non vengono praticate e i consultori hanno sempre meno risorse. Come medico provi un senso di impotenza che ti affligge quando ti trovi davanti giovani donne che usano l’aborto come contraccezione”. Tra le ragazzine della comunità sud americana, ad esempio, il numero di interruzioni è altissimo a causa dell’ignoranza, dei forti condizionamenti religiosi, della mancanza di informazione a scuola e nella società. “Vorremmo fare di più. Curare è anche insegnare e prendersi cura di una persona, è un concetto più ampio del praticare un intervento. Ma sembra ci sia una cortina di fumo sull’argomento”, osserva il medico. Proprio di informazione, tra l’altro, dovrebbero occuparsi i consultori, di concerto con le altre strutture del territorio come le scuole. Ma sono anni che, oltre al blocco del turn over, i fondi disponibili sono sempre più limitati.

Odissea in Sicilia
Nella Relazione sopra citata si sottolinea la diminuzione delle interruzioni volontarie di gravidanze dal 1983 ad oggi, anche se rimane elevato il ricorso all'Ivg da parte delle donne straniere, a carico delle quali si registra un terzo delle interruzioni totali in Italia. Un altro capitolo difficile riguarda la donne più giovani, la situazione delle quali, ma non solo, è particolarmente critica in Sicilia. “Nella nostra regione abbiamo il più alto numero di giovani madri che abortiscono, con un 10,6 per cento di minorenni rispetto a una media nazionale dell’8,5 per cento – spiega Renato Costa, della Fp Cgil Sicilia –. Più in generale il numero delle interruzioni di gravidanza in Sicilia è tra i più alti d’Italia.”.

Nell’isola per riuscire ad abortire spesso bisogna percorrere parecchi chilometri, spiega il sindacalista: “Non solo molti medici sono obiettori, ma spesso sono mal dislocati sul territorio. Il che rende praticamente la legge impraticabile a tantissime donne, che perdono molti giorni vagando da un posto all’altro e arrivano dal medico spesso sul finire del tempo consentito dalla legge per praticare l’intervento. Un dottore mi ha raccontato che la pillola abortiva non si usa perché molte donne supererebbero il tempo limite stabilito dalla legge a causa delle peregrinazioni che sarebbero costrette a fare da un ospedale all’altro per procurarsela. Non sorprende, così, che molte di esse si rivolgano ai privati o, addirittura, vadano all’estero”. Per capire la drammaticità della situazione siciliana basta leggere i dati provenienti da Palermo e provincia: nell’azienda ospedaliera Villa Sofia-Cervello i medici ginecologi che applicano la legge sull’interruzione di gravidanza sono solo due, così come al Civico e all’Ingrassia. E c‘è un solo medico non obiettore alla clinica Candela. Nel resto delle strutture private convenzionate palermitane il servizio è inesistente. In provincia non va meglio: un solo medico non obiettore si divide tra Petralia e Termini Imerese. E un solo ginecologo opera a Partinico. “Questo significa – sottolinea il sindacalista – che i pochi medici di queste strutture sono costretti a lavorare solo sulle Ivg e che, se decidessero di obiettare per stanchezza, non ci sarebbe nessuno a sostituirli”.

La mobilità necessaria

Tutto questo accade nonostante che la legge 194 preveda la mobilità dei medici proprio per garantire a tutte le donne il diritto all’aborto. “Ma – come spiega Massimo Cozza, della Fp Cgil nazionale – questo non avviene. Da tempo come Cgil chiediamo che i medici obiettori non siano a capo dei consultori o delle Asl proprio per permettere una più facile gestione, ma finora non siamo mai stati ascoltati. Per legge ogni struttura, pubblica o privata accreditata, sia essa un ospedale o un consultorio, deve essere obbligata ad applicare la legge. Solo a fronte di questo impegno al privato può essere concesso l’accreditamento”. In Italia però prosperano cliniche private accreditate, soprattutto cattoliche, che non applicano la legge ma ricevono comunque fondi dallo Stato. Senza parlare di quei dottori che “obiettano” nel pubblico, ma non nel “privato”. “Alla base di questi comportamenti non ci sono solo ragioni economiche – spiega un ginecologo obiettore del brindisino che vuole rimanere anonimo e che lavora anche in una clinica privata dove invece pratica l’aborto –. Nell’ospedale dove lavoravo prima di obiettare nessuna paziente continuava a venire da me dopo l’intervento perché le ricordavo cose che preferiva dimenticare. Poi, visto che la voce che ero un ‘abortista’ si era diffusa, anche le nuove clienti erano poche. Per questo mi toccava spesso indirizzare donne a colleghi degli studi privati mentre io continuavo a praticare solo aborti. Una volta un uomo mi voleva picchiare perché avevo operato sua moglie senza il suo consenso. Ora, invece, nel pubblico faccio nascere, nel privato abortire”.

“Molti medici non obiettori ci raccontano storie di pressioni, stanchezza, mole di lavoro eccessiva. Stesso discorso vale per le ostetriche – conclude Cozza –. Una maggiore razionalizzazione garantirebbe sia un ritmo e una diversificazione di lavoro più degni, sia il diritto delle donne ad essere accolte e sostenute senza troppi ostacoli. E poi c’è la questione fondamentale del potenziamento dei consultori: lo chiediamo da anni, perché garantirebbe presidi di salute e informazione sul territorio”.