Anche se in un’Italia oggi tanto diversa, è inevitabile, pensando all’idea di un piano straordinario per il lavoro e l’occupazione lanciata da Epifani durante il recente Congresso della Cgil, tornare alle radici, al Piano del lavoro proposto dalla Cgil di Di Vittorio nel 1949-50. Per usare le parole di Fernando Vianello nella prefazione al volumetto che raccoglieva gli atti di un convegno sul tema organizzato dalla facoltà di Economia dell’università di Modena nel 1975 (vedi scheda bibliografica): “Chiunque voglia prendere sul serio questa parola d’ordine – la parola d’ordine a cui Vianello si riferiva era quella del “pieno impiego”, adottata da Cgil, Cisl e Uil in occasione della “svolta” dell’Eur, nel 1978, ndr –, non degradandola a vuota formula di propaganda, ma considerandola come un concreto obiettivo di politica economica, si troverà inevitabilmente a proporre qualcosa di non molto diverso da un nuovo Piano del lavoro”.

Certo, è da tempo che non si parla più del “pieno impiego” classicamente inteso; ma la crisi in questi anni non è meno grave, anzi, di quella – la stagflazione da un lato, l’incubo del terrorismo dall’altro – vissuta nella seconda metà dei settanta dal paese, così come gli interrogativi intorno alla sviluppo, e alla sua qualità, oggi non sono meno problematici dei primi anni cinquanta.

Il capitalismo immaginato
Avanzata nel congresso di Genova del 4-9 ottobre 1949, approfondita in un’apposita conferenza tenuta a Roma l’anno successivo, in febbraio, la proposta del Piano aveva l’ambizione di affidare l’unità tra occupati e disoccupati – preoccupazione di sempre della Cgil – non a una formula retorica, ma a un complesso articolato di proposte, e a modificare insieme gli indirizzi generali dell’economia italiana. Di cosa si trattava? L’idea, innanzitutto, nulla aveva a che fare con un programma di riforme vòlto a un cambiamento radicale dei rapporti sociali. Non si trattava di un progetto socialista, in altre parole. Come spiegò Di Vittorio, “è un Piano che tende (…) a utilizzare la forza lavoro disponibile e le possibilità potenziali di sviluppo della produzione, nella misura in cui sono utilizzabili in un regime capitalista”.

Nessun proposito di rottura del sistema, insomma, ma una proposta per risolvere, nelle condizioni date, problemi strutturali del paese. In un contesto segnato da una forte disoccupazione (più di due milioni di unità), retribuzioni misere e una generale debolezza delle infrastrutture, l’idea era di porre mano a un programma nazionale di opere pubbliche, edilizia popolare, bonifiche e trasformazioni fondiarie, potenziamento della produzione energetica (accompagnato dalla nazionalizzazione delle industrie elettriche). Ulteriori obiettivi, riguardanti il settore manifatturiero, vennero in seguito formulati nel Convegno sindacale nazionale per l’industria e il piano del lavoro del 2-4 giugno 1950.

La convinzione di fondo, per tornare a Vianello, era che “l’aumento dell’occupazione dovesse essere perseguito sia attraverso la creazione immediata di posti di lavoro e l’allargamento del mercato interno (che avrebbe anche stimolato la formazione di nuova capacità produttiva), sia attraverso l’eliminazione di strozzature e il rafforzamento dell’apparato produttivo”. Il presupposto analitico era che i bassi salari e la disoccupazione dipendessero dallo strapotere dei monopoli. Far crescere la domanda interna, cominciando a limitare detto potere, avrebbe consentito anche migliori condizioni di vita per i lavoratori. Un presupposto, si sarebbe detto poi, per molto versi ingenuo. La diagnosi di partenza, spiegava Trentin durante il convegno modenese del ’75, basata sull’idea di “una sostanziale stagnazione di lungo periodo dello sviluppo industriale” e del “manifestarsi di una sorta di diserzione del grande capitale rispetto all’esigenza di una ricostruzione dell’apparato produttivo”, non corrispondeva alla realtà. “Con questo schema malthusiano essa si precludeva la comprensione della ristrutturazione in atto e della direzione monopolistica di questo processo”.

Ristrutturazione che, unitamente alla favorevole congiuntura internazionale, avrebbe modificato il volto del paese, come il “miracolo economico” si sarebbe poi incaricato di dimostrare. Difficile quindi, in ragione di un limite così serio nell’analisi delle trasformazioni economiche e sociali in corso, costruire un’alternativa ai processi aperti, uscire dallo schema neokeynesiano che era dietro la proposta – schema da Trentin e non solo considerato un limite –, e da una condotta sostanzialmente difensiva delle lotte operaie realizzate contro le ristrutturazioni industriali: “Era difficile cioè fare approdare il movimento ad una strategia capace di unificare i diversi fronti di lotta intorno ad un disegno consapevole e complessivo di alternativa positiva, di riconversione dell’assetto produttivo, con gli elementi di riforma e gli strumenti di potere capaci di garantirne la realizzazione”. Si apriva così, per questa via, un “divorzio drammatico” fra esperienze di fabbrica e lotte generali per il lavoro e il salario. Si creava, detto in altro modo, una separazione netta tra occupati e non. Separazione che invece proprio nelle intenzioni del Piano era rigorosamente esclusa.

Si soffermava su questo punto in particolare, sempre nel convegno del ’75 – l’insistenza sembrerà eccessiva ma si trattò di una riflessione assai densa –, Aris Accornero. La scelta del Piano del lavoro, diceva lo studioso, “fu (…) il modo concreto col quale la Cgil rifiutò un dilemma politico lacerante”: se privilegiare, nelle condizioni allora date, gli occupati o i disoccupati. “Il dilemma (…) veniva respinto perché la Cgil era consapevole che è impossibile, a un sindacato di classe, scegliere uno solo dei due termini del problema. Giacché il problema è in realtà quello del meccanismo di sviluppo”. Questa scelta non escluse importanti accordi per i miglioramenti retributivi di settori della classe operaia (e di settori fra l’altro neanche tra i più sfortunati).

Ma il fatto “è che l’ancor altissima capacità di mobilitazione della Cgil non era a quell’epoca al servizio di una linea che fosse correlata a una strategia salariale coerente. Perciò, più per urgenza di problemi che per propensioni originarie, la priorità politica andava alla battaglia contro la disoccupazione endemica e congiunturale, anche se era chiaro a molti che le lotte soltanto per l’occupazione, con o senza sacrifici – la moderazione salariale dei lavoratori, ndr –, non incidono sul meccanismo di sviluppo e non mobilitano neppure tutta la classe operaia”. Ulteriore difetto, il Piano “poggiava troppo poco” sulle battaglie, a Torino e nella Valle Padana, che in quel finire degli anni quaranta avevano segnato la fine della “collaborazione produttivistica” che aveva accompagnato la ricostruzione postbellica, aprendo la strada a una originale “offensiva rivendicativa”. È “questo tipo di sfasatura a illuminare l’insufficiente taglio operaio del Piano”. Venendo alle conclusioni, “nella frattura tra un linea che funziona nella politica generale”, ma inefficace nella strategia rivendicativa, “c’è tutto il dramma del Piano”.

Una domanda di potere
Se questi erano i limiti, la proposta ebbe comunque una funzione importante. A contraddistinguerne l’ispirazione, ricorda Trentin, era “la sua carica di alternativa, non solo nei confronti della politica delle grandi concentrazioni industriali, dell’assetto proprietario e contrattuale nelle campagne, ma anche nei confronti dell’organizzazione del potere, nella fabbrica e nella società”. Il Piano si pose obiettivi che nessuno da nessun’altra parte perseguiva: “di sviluppo produttivo, di aumento della produttività, di riconversione industriale, di riassetto culturale dell’agricoltura, di modifica delle condizioni di lavoro”.

Ed ebbe un’altra caratteristica: “la domanda di una nuova dislocazione del potere”, “la costruzione, nel vivo di una esperienza di lotta, di nuovi strumenti di potere”. Un’esperienza associativa originale, che nell’Italia dei primi anni cinquanta ripropone l’effervescenza degli organismi operai e popolari frustrata e sconfitta dal risorgere della vecchia armatura dello Stato. “Il Piano del lavoro fu anche questo – prosegue Trentin –: un movimento che liberò all’interno del movimento operaio e contadino delle immense energie potenziali, delle nuove forme di organizzazione e di direzione; che suscitò l’insorgere di nuovi fatti associativi e organizzativi, di nuove forme di partecipazione dal basso”.

Rilancio dei Consigli di gestione, comitati comunali per l’occupazione, comitati per la terra, comitati cittadini per la difesa dell’occupazione e la riconversione industriale: il Piano stimola una vasta mobilitazione sociale e, richiedendo uno sforzo diffuso e concreto di proposta, di soluzione di problemi specifici per territori specifici, è un’occasione importante di crescita culturale e civile, di formazione di un nuovo gruppo dirigente per la stessa Cgil. Come scrisse Vittorio Foa: “(...) nel corso delle agitazioni per la terra e per il lavoro si adottarono forme di lotta”, ad esempio gli scioperi a rovescio, “che costituivano un’aperta insubordinazione verso il potere padronale di decisione sugli investimenti e sull’organizzazione della produzione, si cercò di non limitarsi a chiedere ma di cambiare le cose senza aspettare il beneplacito del padrone, si collegarono gli obiettivi rivendicativi immediati con quelli di una modificazione duratura dei rapporti agrari e dei rapporti di lavoro, si diede vita a organismi di autogestione delle lotte di base”
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Se ci si fermassimo qui, però, non avremmo detto tutto. Il Piano del lavoro ebbe anche un significato più squisitamente politico. Esso rappresentò infatti il tentativo di rompere l’isolamento in cui la Cgil, all’inizio dei “duri anni cinquanta”, era obiettivamente costretta, un modo per andare oltre il muro contro muro dell’Italia d’allora. La risposta del leader democristiano e capo del governo Alcide De Gasperi, è vero, fu liquidatoria: “(…) di piani ce ne sono tanti, quelli che mancano sono i quattrini” (e Riccardo Lombardi, nella conferenza del ’50, ribattè a queste parole con durezza).

Ma non poteva essere lo statista trentino l’interlocutore; e la semina, se non ottenne da questo punto di vista un risultato immediato – diverso il discorso sulle competenze mobilitate, basta scorrere i nomi dei partecipanti alla conferenza del ’50: Sergio Steve, Alberto Breglia, un giovane Paolo Sylos Labini e così via – sicuramente aiutò nel cammino di fuoruscita, in quel momento ancora impensabile, dal clima opprimente del centrismo, di un paese in cui il diritto al lavoro, meglio:la negazione del diritto al lavoro, si legava alla negazione dei diritti del lavoro.

Lo Statuto dei lavoratori è venuto nel ’70, proprio in questi giorni ne celebriamo i quarant’anni. Mentre la lotta per il Piano era in corso, Di Vittorio, nel congresso Cgil del 1952, avanzò la prima proposta di Statuto. Non era un caso, spiega Adolfo Pepe nel suo intervento a un convegno, questa volta recente (2008), su “I Piano del lavoro e il Mezzogiorno”. “(…) la vera questione che Di Vittorio pose quando formulò il Piano del lavoro, come proposta di politica economica nazionale, e lo Statuto dei diritti dei lavoratori, come estensione della Costituzione alle fabbriche, era nient’altro che la costituzionalizzazione della modernizzazione. Era cioè possibile, in questo paese, coniugare regole democratiche e sviluppo?”. Un interrogativo, sessant’anni dopo, quanto mai attuale.