Con il termine Green Economy s'intende un modello di sviluppo economico che prende in considerazione l’attività produttiva valutandone sia i benefici derivanti dalla crescita, sia l’impatto ambientale provocato dall’attività produttiva. Sia gli investimenti pubblici che quelli privati dovrebbero mirare a ridurre le emissioni di carbonio e l'inquinamento, ad aumentare l'efficienza energetica e delle risorse, a evitare la perdita di biodiversità e conservare l’ecosistema.

La Green Economy, inevitabilmente, modificherà la struttura economica, sia dal lato della domanda e che dell’offerta, e comporterà anche una riorganizzazione del ruolo e delle dinamiche tra beni capitali, beni intermedi e di consumo. Tutti i settori dell’economia ne saranno toccati: nessuno è indipendente da quanto accade nei settori a esso collegati. Basti pensare agli effetti che le misure restrittive alle emissioni di particolato atmosferico dei mezzi di trasporto possono generare in termini di produzione, lavoro e investimenti sul comparto automobilistico e, a cascata, sugli indotti. Il Green Deal europeo presuppone una sfida di struttura simile a quella della prima rivoluzione industriale. Una sfida di questo livello non dovrebbe essere lasciata al solo mercato, piuttosto meriterebbe una sinergia tra pubblico e privato a livello nazionale per valutare, anche nelle fasi di studio e di fattibilità, gli investimenti necessari per implementare la Green Economy.

L’esempio delle misure anti-inquinamento e sulla ricaduta immediata su cosa e come produrre (un'azienda che produce motori ed elettronica per veicoli potrebbe trovarsi nella condizione di dover riconvertire in breve tempo parte della produzione per assolvere le nuove normative) è un valido esempio di cambiamento strutturale dei settori in ottica green. Per altro, offre anche la possibilità di vedere quale possa essere il ruolo svolto dall’innovazione tecnologica e della ricerca in questo nuovo paradigma.

A partire dal 2018, anche in Italia si è iniziato a parlare di disaccoppiamento tra crescita e inquinamento. Un fenomeno tale per cui il tasso di crescita del degrado ambientale (misurato principalmente dalle emissioni di gas serra), in un determinato periodo, è inferiore al tasso di crescita dell’attività economica (misurato in genere dal Pil). La produzione di beni e servizi, che tra tutte le attività umane è sicuramente la più dannosa per l’ambiente, cresce di più rispetto ai danni ambientali che provoca. Fenomeno curioso, che merita un approfondimento e una lettura in chiave storica e scientifica.

Per valutare la relazione tra ambiente, crescita economica, struttura e lavoro è necessario identificare alcuni indicatori che ne descrivano le evoluzioni nel tempo. L’Italia si è impegnata molto sul piano ambientale: le emissioni nazionali di Co2 sono passate da 270 milioni di tonnellate nel 1990, a 360 nel 2008 e ha raggiunto stabilmente quota 260 milioni dal 2015 a oggi. Senza dubbio la crisi del 2008-2011 ha contribuito a tali riduzioni, però qualcosa è cambiato nel sistema paese.
Per osservare lo stato di salute di un sistema economico gli investimenti sono il miglior indicatore economico: essi rappresentano il grado di fiducia degli agenti economici verso il futuro (sia prossimo che remoto), ma anche verso il presente, del sistema economico e sociale in cui agiscono. Non tutti gli investimenti sono uguali sul piano qualitativo: in modo grossolano, potremmo distinguere in investimenti ad alta intensità tecnologica (prima fra tutti la ricerca e sviluppo – R&S) e in investimenti a bassa intensità tecnologica. Con il termine alta intensità tecnologica intendiamo investimenti volti a sviluppare nuove tecnologie o volti a realizzare beni e servizi che contengono tecnologie innovative e che permettono risparmi (in termini di tempo e risorse) derivanti da utilizzi efficienti ed efficaci. Tornando al tema della fiducia, i primi guardano al futuro di lungo periodo, mentre i secondi rispondono anche a logiche di breve periodo. Da alcuni studi macroeconomici emerge che, almeno nel caso italiano, gli investimenti in quanto tali non impattano negativamente sulle emissioni, ma nemmeno le riducono. Ciò potrebbe essere attribuibile alla struttura economica del paese o alla dinamica di adattamento all’evoluzione economica del paese. Sappiamo anche che la R&S ridurrebbe le immissioni di Co2 in misura superiore all’investimento in quanto tale, cioè a tecniche acquisite. Nel tempo il sistema economico nazionale ha migliorato il rapporto R&S/Investimenti, ma i settori che più di altri registrano valori elevati di Co2 (trasporto, magazzinaggio ed energia), non osservano la stessa dinamica. In queste realtà, infatti, l’intensità tecnologica rimane più o meno stabile, diversamente dai settori della farmaceutica, chimica e gomma che accrescono questo rapporto. Un altro elemento di curiosità è che i soli settori energia, trasporto e magazzinaggio sono responsabili di circa il 75% delle emissioni totali di Co2 per l’Italia, ma occupano solamente il 10% della forza lavoro e producono circa il 10% del valore aggiunto totale nazionale. Ciò suggerirebbe di potenziare gli investimenti in R&S verso due fronti: da un lato nei settori più inquinanti, allineando le emissioni alla media nazionale ed europea, e dall’altro potenziando i settori più virtuosi in termini ambientali e occupazionali. Quale ruolo per lo Stato? Affinché i fondi Gnd non si disperdano, è bene che si programmi un intervento pubblico articolato in diversi livelli e basato su evidenze empiriche. Si investa in base a un criterio settoriale (investire nei settori che necessitano di tecnologia per tornare a crescere e non investendo a pioggia), e uno territoriale (mappando il territorio nazionale per identificare le aree che davvero necessitano di interventi strutturali e infra-strutturali uscendo da logiche storiche di dualismo geografico).

Paolo Maranzano,  ricercatore in Statistica presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca, su temi di statistica ambientale, energetica ed economica