Un’ora di incontro, dice il comunicato. Sessanta minuti in cui Matteo Salvini e Viktor Orbán, due uomini convinti che la geografia sia un’opinione, hanno ridisegnato il mondo davanti a un plastico. Lì, tra la Calabria in miniatura e la Sicilia in scala ridotta, si sono scambiati sorrisi, promesse e forse qualche souvenir ideologico. Salvini con la cravatta verde Lega, Orbán con la mappa mentale del suo impero danubiano da ricostruire a colpi di “asse”.

Il ministro italiano, emozionato come un bambino davanti al trenino elettrico, ha illustrato il Ponte sullo Stretto come fosse il nuovo confine tra civiltà e barbarie. Orbán ascoltava rapito, immaginando probabilmente come collegare il suo lago Balaton a Lampedusa per fermare i migranti con un solo gesto d’ingegneria. Entrambi d’accordo, il cemento è più convincente della diplomazia, e un viadotto può unire popoli che non si sono mai sopportati.

Poi la pace, tema prediletto di chi ama la guerra al congiuntivo. “La pace è l’unica strada”, ha detto il premier magiaro, dimenticando che la sua idea di pace somiglia molto a una resa firmata in ungherese. Salvini annuiva, assorto, forse sognava di spostare l’asse terrestre fino a far passare l’Ungheria sotto il Ponte sullo Stretto, così da unire Roma a Budapest senza passare per Bruxelles.

Intanto, nel silenzio complice dei corridoi ministeriali, il plastico del Ponte restava lì, immobile e perfetto come l’Europa che piace a loro: di cartone, senza traffico umano, con mari finti e confini disegnati con il pennarello. Orbán ha chiesto se il ponte reggerà i carri armati. Salvini ha risposto che basta crederci.

Si sono salutati con cordialità, promettendo futuri cantieri e vecchi rancori. Poi Orbán è tornato nel suo asse e Salvini nel suo ministero, entrambi felici d’aver costruito, almeno per un’ora, un mondo in miniatura dove la realtà non disturbaaffatto.