Il decreto Cura Italia cura poco la cultura. Cgil, Cisl e Uil hanno avviato un confronto con il ministero dei Beni culturali e del Turismo sulla complessa filiera della cultura, rimasta per buona parte esclusa dalle tutele previste nei provvedimenti adottati dal governo. Qualche sintomo è stato alleviato, ma per guarire la malattia un’indennità una tantum non è sufficiente. È arrivato il momento di un piano nazionale. Per le organizzazioni sindacali, al centro ci sono le difficoltà enormi in cui si trovano centinaia di migliaia di lavoratori dello spettacolo, dei beni culturali, del restauro, del turismo, dello spettacolo viaggiante. Il decreto di marzo ha lasciato irrisolte una serie di criticità che la “cura” di aprile - affermano i sindacati - dovrà affrontare in maniera prioritaria. Si fa presto a dire cultura, per riferirsi a un patrimonio artistico e monumentale che va dai teatri ai musei, dal cinema alla lirica, dalle biblioteche ai concerti, dai siti archeologici agli artisti di strada e molto altro ancora. Sono settori in cui il lavoro atipico, precario, intermittente, sottopagato, nero è un male atavico e di molto antecedente alla pandemia. Il sipario strappato dal coronavirus ha portato alla luce tutte le fragilità di questi settori produttivi, in cui mancano tutele per i lavoratori e regole univoche per le imprese. Proprio questa fase di emergenza, dunque, potrebbe trasformarsi nell’occasione per ripartire da zero, rifondare il mondo del lavoro nella cultura e nello spettacolo.

Il primo passo, secondo le organizzazioni sindacali, è prevedere nel nuovo decreto misure di sostegno al reddito per tutti coloro che ne erano rimasti esclusi a marzo, per via dei requisiti restrittivi previsti dal Cura Italia. La platea è ampia e diversificata: lavoratori dello spettacolo, stagionali del turismo, collaboratori occasionali con ritenuta d’acconto (come i restauratori e gli archeologi), dipendenti del Mibact, lavoratori in regime di concessione nei musei e nei siti culturali, lavoratori a chiamata. E poi i lavoratori volontari, i cosiddetti “scontrinisti”, come quelli della Biblioteca Nazionale di Roma, ai quali il compenso veniva corrisposto addirittura sotto forma di rimborsi spese. Infine, gli artisti dello spettacolo viaggiante e i giostrai, circa 15mila persone, in gran parte della comunità Sinti e Rom. Per tutti questi professionisti, la stagione si è chiusa a marzo e non è ancora chiaro quando sarà possibile tornare in scena, in senso metaforico e letterale. Lo stop alle attività culturali ha significato per moltissimi anche un vuoto istantaneo di reddito, che l’indennità di 600 euro, introdotta dal Cura Italia, non ha colmato. Inoltre, le condizioni e i vincoli, previsti dalla legge, hanno ridotto molto la platea dei beneficiari.

Nessuna indennità per i collaboratori e i lavoratori in somministrazione, per gli stagionali del turismo che avevano smesso di lavorare prima del 23 febbraio, per i dipendenti dei parchi a tema o di imprese in appalto, le cui attività non rientrano nel codice Ateco indicato dalla norma. Nessuna tutela per restauratori e archeologi, che spesso lavorano come autonomi con ritenuta d’acconto. Fuori dall’art. 38 del decreto anche i lavoratori intermittenti, che in alcuni casi si sono visti negare anche l’accesso alla cassa integrazione in deroga, a causa delle interpretazioni in senso restrittivo delle sedi locali dell’Inps. Il requisito che, invece, ha penalizzato i lavoratori dello spettacolo, è stato quello delle 30 giornate di versamenti Enpals per il 2019. Molti, come confermato anche dalle statistiche Inps, non riescono a raggiungere quel numero di contributi giornalieri, non solo per la natura intermittente di un lavoro legato ai cicli di produzione. Si tratta di un settore in cui, soprattutto per attori, danzatori e musicisti, le singole posizioni contributive sono danneggiate dal lavoro nero e dai periodi di prove non pagati. A queste condizioni, si somma il tempo dedicato alla preparazione dei provini e allo studio, che non è monetizzato.

C’è poi da considerare il doppio lavoro svolto dalla maggior parte degli artisti, che affiancano all’attività di performer quella di insegnanti. Le organizzazioni sindacali sollecitano il governo ad annullare questi requisiti nel decreto di aprile, prevedendo strumenti disostegno al reddito che superino lo schema dei bonus una tantum. Per chi lavora da precario nella cultura, il meccanismo delle indennità, delle deroghe, dei contributi straordinari, rappresenta per paradosso la normalità. Ma proprio per questa ragione l’invito dei sindacati è a ragionare su risposte universali, che vadano oltre la pandemia. Bisogna lavorare a un cambiamento radicale del paradigma su cui si regge il settore produttivo culturale, fatto di ambiti affini eppure diversi, con le proprie peculiarità. Si pensi al mondo del teatro, dove ci sono le associazioni culturali, i circuiti off, le produzioni di poche centinaia di euro e quelle milionarie, le strutture che hanno accesso al Fondo Unico per lo Spettacolo, come le fondazioni lirico-sinfoniche. In riferimento a questo specifico caso, le organizzazioni sindacali hanno chiesto al Mibact un impegno preciso: vincolare le imprese, che riceveranno in anticipo le risorse pubbliche, al pagamento del 70 percento delle giornate dichiarate a preventivo. Sarebbe una bella boccata d’ossigeno per gli scritturati con retribuzioni basse e per i dipendenti delle fondazioni, che hanno accesso al Fis, ma i cui stipendi sono rimasti fermi al 2006. 

Tra i disagi più grandi vissuti in questa fase di emergenza dai lavoratori dello spettacolo, dei beni culturali, del cine-audiovisivo e dagli autori (categoria tra le meno tutelate in assoluto) c’è stato l’annullamento dei contratti. I sindacati chiedono, anche in questo caso, un vincolo per le imprese che riceveranno le risorse provenienti dal Fondo emergenza spettacolo, cinema e audiovisivo, istituito dal decreto Cura Italia: riconoscere un compenso ai lavoratori i cui contratti sono stati annullati dall’oggi al domani. Il teatro e il cinema sono resi vivi da migliaia di lavoratori invisibili, sul palco e dietro le quinte, sul set e nel backstage, spesso dati per scontati dal pubblico, perché “non famosi”. Analoga è la situazione del nostro patrimonio artistico, nelle mani sapienti di restauratori e archeologi estremamente qualificati, ma tenuti al laccio per anni da finte partite iva e rapporti di lavoro occasionali. Nella maggior parte dei casi, persino i dispositivi di protezione individuali, necessari allo svolgimento di queste professioni, sono a carico personale e non detraibili. A maggior ragione, in fase di emergenza Covid-19, nei siti di restauro e archeologici dovrebbero valere le norme di sicurezza previste dal protocollo, firmato con il ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, per le grandi opere e per i cantieri edili.

Non si fanno le nozze con i fichi secchi, eppure si pretende di far splendere un patrimonio artistico e culturale sconfinato, come quello italiano, con il lavoro atipico, precario e in costante carenza d’organico. Molti bandi di gara per l’affidamento di servizi nel settore museale erano in scadenza all’inizio della pandemia, e tutt’ora non è chiaro se sarà prevista una proroga per l’emergenza in corso. Resta a questo proposito cruciale, per le organizzazioni sindacali, l’applicazione della clausola sociale. L’unica garanzia di salvaguardare posti di lavoro e livelli occupazionali. Qualunque sarà la data scelta per la riapertura dei musei, infatti, sembra chiaro che l’afflusso più contenuto, nei primi tempi, comporterà una riduzione del servizio. Da sempre ridotti, invece, sono gli organici nel settore pubblico dei beni culturali. Qui mancano all’appello 5300 dipendenti. Secondo i calcoli dei sindacati, alla fine del piano di assunzioni previste entro il 2021, mancheranno ancora tra le 4mila e le 5mila unità rispetto all’organico teorico, che ne prevede circa 19mila. Cgil, Cisl e Uil chiedono un confronto immediato con il ministero, per evitare che la crisi in corso blocchi ulteriormente il turn over, già al palo.

Nel corso degli anni, si è consolidata una contraddizione strutturale: da un lato, le attività in affanno per via della perenne carenza di organico; dall’altro, il continuo ricorso a esternalizzazioni e contratti precari, per far fronte alla mancanza di personale assunto. È un effetto domino che coinvolge diverse realtà, tra cui anche la Ales spa, la società in house del Mibact, che dovrebbe supplire alle carenze di organico, ma si avvale prevalentemente di contratti a tempo determinato. I lavoratori della società, in scadenza, non potranno usufruire dei contratti di solidarietà, anche se nei loro confronti è stato preso l’impegno al riassorbimento, quando le attività riprenderanno. Proprio per far fronte a situazioni simili, in sede di conversione al Senato, nel decreto Cura Italia è stato introdotto un articolo (il 19bis) che prevede la possibilità di prorogare i contratti a termine in scadenza, in modo da permettere l’accesso agli ammortizzatori sociali. Una buona iniziativa, secondo le organizzazioni sindacali, ma si può fare di più, per offrire maggiori garanzie a questi lavoratori. 

Resta il grande problema di come affrontare questo periodo incerto, sia nei tempi che nelle modalità della ripresa. Quando riapriranno i cinema, i teatri, i musei, i siti archeologici?Quando i piccoli borghi, le città d’arte e i luoghi di villeggiatura torneranno ad essere mete turistiche affollate? Per le organizzazioni sindacali, è arrivato il momento di lavorare ad un piano nazionale della cultura: obiettivi, strumenti, risorse pubbliche, nazionali, comunitarie. Ci vogliono coraggio e lungimiranza, per investire in un settore che offre tante opportunità di lavoro, soprattutto per i giovani. Ma deve essere lavoro adeguatamente retribuito, contrattualizzato, tutelato. Il nostro patrimonio di beni culturali e di talenti artistici è inestimabile, il capitale umano è enorme. Dall’emergenza si può ripartire, come auspicato dalle organizzazioni sindacali, per costruire un progetto e un futuro diverso. Il genio è uscito dalla bottiglia.