Nei giorni scorsi, mentre gli occhi di tutti gli analisti erano puntati sul referendum britannico che, di lì a poco, avrebbe portato al disastroso risultato che oggi tutti conosciamo, la Corte di giustizia europea ha stabilito che uno Stato membro – e nella fattispecie proprio il Regno Unito – può negare gli assegni familiari e il credito d’imposta per i figli a carico ai cittadini dell’Ue che non dispongano di un diritto di soggiorno in tale Stato.

Secondo la Corte, sebbene tale condizione sia effettivamente “una discriminazione indiretta”, essa è comunque giustificata dalla necessità di “proteggere le finanze dello Stato membro ospitante”. L’Ue ha impiegato 60 anni a sviluppare una rete di sicurezza sociale per i bambini. E fino a una settimana fa, i figli di cittadini migranti avevano esattamente gli stessi diritti previdenziali dei figli dei cittadini nazionali.

Il regolamento sul coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale, la cui ultima versione è stata codificata dal Regolamento europeo 883 del 2004, stabilisce una serie di principii comuni che devono essere rispettati dagli Stati membri, affinché alle persone che esercitano il diritto di libera circolazione e di soggiorno all’interno dell’Unione non sia arrecato alcun pregiudizio sul piano della previdenza sociale. Uno dei principii comuni che gli Stati membri devono rispettare è quello di uguaglianza, che si traduce nel divieto di qualsiasi discriminazione in base alla nazionalità.

La sentenza, riguardante la causa C-308/14 Commissione contro Regno Unito, ha invece stabilito che lo Stato in questione è nel suo diritto quando discrimina indirettamente cittadini di altri Stati membri, sulla base del fatto che il “diritto di soggiorno” può essere imposto come requisito necessario per accedere agli assegni familiari e al credito d'imposta per i figli a carico, se questo “è opportuno per proteggere le finanze pubbliche”. Il contenzioso nasce dal fatto che la Commissione ha ricevuto numerose denunce di cittadini dell’Unione non britannici residenti nel Regno Unito, che si sono visti rifiutare dalle autorità britanniche alcune prestazioni sociali, a motivo del fatto che essi non erano titolari di un “diritto di soggiorno”.

La Commissione ha proposto un ricorso per inadempimento contro il Regno Unito, rilevando che la normativa britannica impone di verificare che i richiedenti determinate prestazioni sociali – fra cui appunto gli assegni familiari e il credito d’imposta per figli a carico – soggiornino “legalmente” nel territorio britannico. Tale condizione è discriminatoria e contraria allo spirito del Regolamento europeo, il quale – come più volte chiarito dalla Commissione e in passato dalla stessa Corte di giustizia – prende in considerazione unicamente la “residenza abituale” del richiedente, e non il titolo legale del “soggiorno”.

Recenti studi hanno dimostrato che la decisione di tagliare assegni familiari per figli di migranti ha un effetto irrilevante, e persino controproducente, sulle casse dello Stato. Il fatto però che uno Stato membro – in questo caso il Regno Unito – possa discriminare i cittadini di altri Stati membri dell’Ue rischia di disfare un sistema di protezione sociale costruito nel corso dei decenni per proteggere i più bisognosi.

Ci si potrebbe chiedere, ma che effetto ha questa sentenza della Corte ora che il Regno Unito è sul punto di lasciare l’Unione? Su tale aergomento non bisogna lasciarsi ingannare: Brexit o non Brexit, questa decisione potrebbe portare alla disfatta l'intero sistema di welfare europeo. Esso infatti rischia di costituire un precedente e aprire le porte al taglio degli assegni familiari in altri paesi dell’Ue, con conseguenze negative per i lavoratori e le lavoratrici migranti, e per i loro bambini.

Per saperne di più: Testo integrale (in italiano) della sentenza

Carlo Caldarini è direttore dell’Osservatorio Inca Cgil per le politiche sociali in Europa