Non fare niente, questa è la triste routine di due milioni e mezzo di giovani in Italia. È questo il primo, desolante dato che emerge dalla prima vera indagine realizzata in Italia sul fenomeno dei Neet, acronimo di Not in education, employment or training: giovani che, in pratica, non fanno niente, e di cui per questo si parla molto, ma molto poco. “Ghost” (fantasma) è il titolo dell’indagine realizzata dall’associazione WeWorld in collaborazione con il Cnca (Coordinamento nazionale comunità di accoglienza) e la rivista Animazione Sociale, che tenta di individuarne profili e cause, e di analizzare le politiche adottate.

A tutti, più o meno, sarà capitato almeno una volta nella vita di ritrovarsi senza avere nulla da fare. Un periodo senza scuola, senza università, senza lavoro. A volte capita dopo la laurea, nella fase di inserimento nel mondo del lavoro, quando dopo lo stordimento iniziale si tenta di mettere a frutto gli anni di studio, inviando il curriculum vitae ovunque; oppure tra un lavoro e un altro, come capita agli stagionali; o quando invece, semplicemente, non si trova lavoro e lo si cerca. Ma ci sono persone per cui non avere un impegno di tipo formativo, educativo o lavorativo non è un periodo passeggero, ma una condizione di vita.

Il fenomeno, seppur taciuto, è in costante aumento e in particolare in Italia dal 2007 è cresciuto di un punto percentuale all’anno. Ecco cosa emerge dai dati Istat del 2014, raccolti nello studio: i giovani tra i 15 e i 29 anni che non lavorano, non studiano e non si formano sono il 21%, ovvero due milioni e mezzo, di cui poco più della metà sono donne. Nella formazione di queste stime l’aspetto territoriale ha una forte rilevanza, mostrando un’Italia divisa in due macroregioni, che viaggiano a due velocità diverse, come fossero due Stati diversi: al Nord i Neet non superano il 20% dei giovani, mentre al Sud il dato arriva ad un drammatico 35%.

Considerando che il tasso di disoccupazione giovanile, seppur sceso al 40%, resta comunque al di sopra della media europea, il fenomeno dei Neet segue questa tendenza, portando lo Stivale in fondo alla classifica, superando altri paesi come Regno Unito, Francia e Germania. Perché i Neet non sono una peculiarità italiana. La disoccupazione giovanile è in aumento in tutto il mondo e secondo la Banca Mondiale proprio il numero dei Neet deve spingere a trovare provvedimenti efficaci. L’Unione europea si è decisa ad affrontare il problema, ponendosi l’obiettivo di arginare la dispersione scolastica, riconosciuta come la causa principale del fenomeno.

Uno degli aspetti più interessanti che emerge dallo studio è che per molti i Neet sono una categoria psicologica più che una classe sociale: molti giovani si definiscono così nonostante abbiano impegni in qualche tipo di tirocinio od occupazione, che però non riflette le loro qualifiche o aspirazioni; altri invece si autoescludono dalla categoria perché impegnati in attività di volontariato o sportive e ancora non si sono rassegnati. Perché è la rassegnazione la principale caratteristica dei Neet, oltre al senso di precarietà e l’esclusione sociale, che accomunano tutti i giovani italiani.

Giovani che nell’indagine si distinguono in tre categorie: i giovani di successo, composta da ragazzi di famiglie abbienti – su cui possono contare – e con percorsi formativi privilegiati, spesso con esperienze all’estero; quelli che occupano una sorta di area grigia, ragazzi che provano a entrare nel mondo del lavoro, ma che per diversi motivi, economici o di esperienze, fanno fatica; e infine i marginali, i Neet, che si trovano al di fuori del mondo formativo e lavorativo e si rassegnano alla loro condizione, smettono di mandare curricula e si chiudono nell’isolamento.

Solitamente al di fuori dal mondo dei social, questi giovani sono privi di figure guida: oltre all’acclarata e totale perdita di fiducia e interesse in istituzioni e politica, anche la famiglia, pur rimanendo un punto fisso importante, sembra aver perso la capacità di guidarli. A monte del problema sembra esserci la dispersione scolastica, con il triste primato del 15% dei giovani che abbandona il percorso di studi prima di raggiungere un titolo o una formazione professionale. Ma non solo. Oltre alla dispersione, sono le esperienze di formazione negative a incrementare il numero dei Neet: bocciature, cambi di indirizzo e titoli di studio deboli. Il fatto, più che noto, è che l’ascensore sociale in Italia è bloccato, con i soggetti più a rischio che sono proprio quelli i cui genitori possiedono titoli di studio bassi o percorsi formativi inconclusi.

Nel nostro paese la scuola sembra incapace di offrire una formazione professionale e psicologica adeguata al mondo del lavoro, ed è vissuta dai Neet, così come dal resto dei giovani, in modo passivo, come un’esperienza del tutto slegata dalla vita al di fuori delle aule scolastiche. Il problema è grave e ha pesanti ripercussioni economiche: i due milioni e mezzo di Neet gravano sul Pil, in termini di mancata produttività in reddito permanente, per una forbice che va all'1,4 al 6,8 percento. Del tema si comincia a parlare, ma gli intervenenti messi in campo come percorsi formativi, incentivi per l'innovazione e i per i giovani impiegati in ambiti artistici e creativi, ancora non sono riusciti ad arginare il problema. Ed è l'ora di fare qualcosa.