Sembra proprio che stia per esplodere un'altra bolla. Ultimamente ne spuntano un po' ovunque e fanno sempre temere il peggio: bolle finanziarie, immobiliari e così via. Stavolta a essere chiamate in causa sono le start up, ovvero quelle aziende in fase iniziale di “lancio” e alla ricerca di finanziamenti e modelli vincenti di business. Si parla, soprattutto, delle start up legate alle nuove tecnologie e in particolare al mondo di Internet: molte di esse spesso riescono a ottenere migliaia di euro di finanziamenti, per poi però andare in fumo senza superare i primi anni di attività. Insomma: l'incubo di una nuova bolla come quella delle Dot Com di inizio millennio è dietro l'angolo.

Sono così tante le start up scomparse che c'è chi addirittura chi si è messo a censirle. Su www.starupover.com l’elenco di aziende o idee apparentemente solide che di colpo svaniscono dalla scena, sia in Italia che nel resto del mondo, mostra al pubblico l’altra faccia del mettersi in proprio: quella fatta di incubatori che si moltiplicano ma non sono in grado di avviare aziende; di miliardari che si improvvisano investitori o business angels e di regole poco chiare su come scremare le migliaia di idee che ogni mese vengono date in pasto a eventi, conferenze ad hoc, week-end a tema. Ad accrescere ulteriormente la bolla ci pensano poi naturalmente i media, sopravvalutando il fenomeno, soprattutto in ambito italiano, e presentando le start up come una sorta di “soluzione” alla lunga crisi che sta attraversando l'economia del nostro paese.
 

 

“Tutti parlano di start up, di quanto sia entusiasmante mettersi in proprio, ma nessuno parla degli errori e dei fallimenti”, spiega Andrea Dusi, blogger, autore del sito startupover e fondatore di Wish Days, azienda che ha messo esperienze e viaggi in cofanetti da vendere in libreria: un piccolo miracolo imprenditoriale nato nel 2006 e che oggi conta 120 dipendenti e 45 milioni di euro di fatturato.

“Anche io – ammette – ho fallito con la mia prima start up nel 2003, ma non è un buon motivo per non parlarne. Persino Kickstarter (tra le più note piattaforme di crowdfunding per idee imprenditoriali, ndr) fa in modo di non mettere in evidenza i progetti che non ce l’hanno fatta: se si cerca su Google, su questo tema non compare nulla nei primi risultati, a parte le denunce di utenti scontenti”.

Nel suo blog sono riportati i casi più e meno eclatanti di fallimenti, ma Dusi sostiene di aver raccolto in questi anni dettagli su almeno 1.200 aziende innovative andate in fumo. Tra queste Catch Notes (app per prendere appunti, 9 milioni di dollari bruciati), Songbird (browser per musica digitale, 17 milioni di dollari bruciati), Wantful (startup che voleva fare business con la personalizzazione dei regali, 5 milioni e mezzo di dollari bruciati). Ma anche esempi più illustri, come Google Reader, clamoroso fallimento di qualche anno di uno dei servizi del gigante di Mountain View.

Secondo Italia Startup (l’associazione di categoria delle neo-imprese italiane) nella Penisola al momento ci sono oltre 3.000 aziende innovative, la maggior parte delle quali dedite all'hi-tech e ai servizi. Di queste, 989 sono start up che impiegano complessivamente 3.000 lavoratori, ma con 15.600 persone che ci lavorano come soci o collaboratori. Seppur in costante crescita, ancora il settore è “piccolo” e questi numeri non ne descrivono le criticità.

Eppure il tasso di fallimento tra le neoaziende è molto alto: circa l’80-85% non arriverebbe ai primi tre o cinque anni di vita. Il fatto che molte start up falliscano è assolutamente fisiologico e non necessariamente un male. Il problema sta nel massiccio incremento dei finanziamenti a fronte della sopravvalutazione del mercato. Come già accennato, il fenomeno è gonfiato dai media, se si considera che le start up innovative rappresentano appena lo 0.25% delle aziende nazionali.

Nonostante queste dimensioni ridotte, molto denaro si è riversato nel settore rispetto al passato, a partire dal 2014, grazie alla liquidità disponibile e agli incentivi fiscali, ma anche grazie alla continua esposizione sui mezzi di comunicazione. Ciò ha fatto lievitare in meno di due anni le relative valutazioni del 30-50%, mentre nel triennio 2015-2018 verranno investiti circa 600 milioni di euro nel settore. Una pioggia di denaro che però rischia di bruciarsi senza dare risultati concreti.

Un elemento da tenere in altissima considerazione e che invece spesso passa in secondo piano a causa dei fin troppo facili entusiasmi mediatici, è l'attività di selezione delle idee che meritano un finanziamento. Meno start up in giro, dunque, ma di maggior qualità. “Non credo sia un problema di capitali, ma penso che questi vadano indirizzati al meglio e messi nelle condizioni di raggiungere i progetti veramente meritevoli – afferma Michele Padovani, amministratore dell'incubatore privato iStarter, cha 'vanta' il 5% dei progetti approvati tra quelli proposti –. Di recente l’ecosistema che ruota attorno al concetto di start up ha fatto registrare un incremento degli attori così significativo da indurre a pensare che in questo abbia inciso anche una componente modaiola”.

Tuttavia, conclude Padovani, “credo che nel prossimo futuro prevarrà la vecchia legge di natura per la quale solo i soggetti più forti sopravviveranno: piccole aziende in grado di proporre progetti innovativi e con modelli di business in grado di farle crescere gradualmente, evitando i passi falsi e le sopravvalutazioni del passato”.