Una Patricia Arquette da Oscar, la notte del 23 febbraio, ha dedicato il premio ricevuto a “tutte le donne che hanno partorito, tutte le cittadine e le contribuenti di questa nazione: abbiamo combattuto per i diritti di tutti gli altri, adesso è ora di ottenere la parità di retribuzione una volta per tutte, e la parità di diritti per tutte le donne negli Stati Uniti”.

Nel discorso di ringraziamento agli Oscar 2015 la Arquette ha denunciato con indignazione il persistere, negli Stati Uniti, di "un drammatico gender inequality". Un tema caro a Obama, che si batte da tempo affinchè 'chi fa lo stesso lavoro abbia lo stesso stipendio, sia uomo o donna', aggiungendo che 'non dovrebbe essere così complicato'.

Invece, è evidentemente molto complicato superare discriminazioni e disuguaglianze tra uomini e donne, se in molte parti del pianeta i cambiamenti sono ancora troppo lenti. Come testimonia il Rapporto Global Gender Gap 2014, attraverso il quale il World Economic Forum, ogni anno ci aggiorna sul divario di genere nel mondo. Il confronto con il 2006 – il primo anno di pubblicazione del rapporto – dimostra che il divario è diminuito soltanto del 4% (dal 60 al 56 per cento).

Se il trend rimarrà tale ci vorranno ancora 81 anni per raggiungere la parità. Non sarà troppo? Una denuncia durissima arriva in questi giorni da Christine Lagarde, direttrice del Fondo monetario internazionale, che parla di 'una cospirazione contro le donne" per impedire di essere economicamente attive. In un mondo che ha tanto bisogno di crescita, le donne possono dare un contributo, se solo hanno di fronte a sé delle pari opportunità, invece di una insidiosa congiura".

In una ricerca recentissima sui danni del sessismo del Fmi, si legge che "in più di 40 nazioni, tra cui molte ricche e avanzate, si perde più del 15 per cento della ricchezza potenziale, per effetto delle discriminazioni contro le donne". L'Italia? La troviamo in una fascia arretrata. Nel nostro paese a causa delle discriminazioni contro le donne il 15 per cento del Pil potenziale non viene realizzato.

L'Italia non brilla, neanche secondo i dati Istat, da cui si ricava che in Europa siamo gli ultimi per reddito e i primi per disuguaglianze, al settantaquattresimo posto nella graduatoria del gender gap, cioè del divario delle condizioni socio economiche di donne e uomini. Dopo di noi ci sono solo Malta e la Romania. Eppure nel nostro Paese le donne ottengono risultati migliori nel percorso formativo, il numero delle laureate supera quello degli uomini, ma nel mondo del lavoro sono sempre le ultime e a parità di funzioni guadagnano meno.

Oggi il paradosso italiano è che la mobilitazione delle donne, così come l'impegno costante della Cgil per la libertà e la dignità del genere femminile, hanno prodotto un miglioramento significativo riguardo la loro presenza nei Consigli di amministrazione e in politica, al quale corrisponde però un peggioramento in termini di opportunità occupazionali e di uguaglianza salariale a parità di lavoro tra uomini e donne.

Nel frattempo, in tutte le salse e in tutte le sedi si ribadisce che il benessere delle donne coincide con quello di tutti e che il Pil aumenterebbe significativamente se crescesse il tasso di occupazione femminile. Peccato che la realtà sia totalmente scollata da questi annunci e da queste previsioni.

Come ha rilevato la ricerca Istat del 2014 sul capitale umano, le donne italiane sono penalizzate da precarietà nel lavoro, salari inferiori, minore continuità lavorativa nell'arco di vita, difficoltà di conciliazione tra vita familiare e contesto lavorativo, mancanza di servizi, che si traducono in un difficile accesso al mercato del lavoro e in un forte divario pensionistico.

La conseguenza è che il capitale umano delle donne, generalmente più istruite, vale quasi la metà di quello degli uomini: 231mila euro contro 435mila. In un mercato del lavoro che è tra i meno incoraggianti d'Europa, con una quota di donne occupate molto bassa (il 46,5 per cento), di 12,2 punti inferiore al valore medio della Ue.

In altre parole in Italia si spreca una grossa fetta del capitale umano disponibile e al tempo stesso le donne contribuiscono fortemente al benessere complessivo. Questi dati dovrebbero indurre il governo a fare in modo che le politiche di investimento e la valorizzazione del capitale umano (istruzione, salute, strumenti di conciliazione tra famiglia e lavoro) siano prioritarie, anziché comprimere i diritti di chi lavora.

Non è un caso che l'Europa continui a pungolare l'Italia, fissando l'annullamento delle differenze retributive tra gli obiettivi da raggiungere entro il 2020, nonché uno degli obiettivi del road map 2011-2015, relativamente a occupazione e diritti sociali. Le donne non possono, non devono più aspettare, non sono una categoria, né una minoranza, sono parte della società. Non si tratta neanche di un vago senso di giustizia sociale, o di rivendicazione sindacale, ma del prendere atto che semplicemente ci siamo e che abbiamo diritto ad una cittadinanza piena.

In questo senso vanno ripensate anche le politiche di genere, che non devono essere modellate sulle donne e a loro finalizzate, come fossero soggetti da 'proteggere' e da 'tutelare', come fossero altro rispetto alla dimensione pubblica e al governo del Paese. Questo richiede un cambiamento profondo delle politiche sociali, dell'organizzazione del lavoro, non più in una visione neutra, che poi si traduce in genere maschile, ma in un'ottica di mainstreaming di genere, ovvero la valutazione del diverso impatto su donne e uomini in tutti i programmi e nelle misure da adottare in campo economico, legislativo, politico e sociale.

Rimuovendo - come recita l'articolo 3 della nostra Costituzione - 'gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del paese'. Le donne della Cgil sanno che questa battaglia non è ancora finita e che a combatterla, spesso, purtroppo, sono ancora solo le donne. Ma sanno anche che il cambiamento passa da qui e che la disuguaglianza non paga.

Responsabile politiche di genere Cgil nazionale