Sono prevalentemente donne, lavorano soprattutto nelle strutture pubbliche, hanno tra i 30 e i 49 anni, nella gran parte dei casi sono infermiere e vengono colpite di più nei giorni feriali. Questa è la fotografia delle vittime di aggressioni in ambienti sanitari che emerge dalla Relazione sulla sicurezza degli esercenti le professioni sanitarie del 2024.

È passato quasi un anno dall’introduzione di normative volte ad arginare il fenomeno delle aggressioni ai sanitari, norme solo ed esclusivamente di tipo securitario, eppure si registra un aumento dei casi del 15% rispetto al 2023. Forse la sola risposta repressiva non è sufficiente ad affrontare un fenomeno che prima di tutto va compreso. Solo presidi di polizia negli ospedali o telecamere nei luoghi della cura non bastano.

In Campania c’è chi dice no

I medici della Fp Campania hanno diffuso un documento dal titolo significativo: La società della sorveglianza mina la relazione della cura. Obiettivo del documento è denunciare e contrastare la crescente tendenza delle aziende sanitarie campane a investire massicciamente in sistemi di videosorveglianza, con l'implementazione di telecamere e persino la sperimentazione di bodycam sul modello delle forze dell'ordine. “Non va bene - ci dice Simona Grassi, medica di un grande nosocomio napoletano -, noi pensiamo che questo modello non solo non sia risolutivo, ma in certi casi sia anche deleterio perché peggiora il clima, quasi trasforma l'ospedale in un ambiente militarizzato”.

La cura è fatta anche di relazione, di empatia, di accoglienza e accudimento oltre che di indagini strumentali e somministrazione dei farmaci. Questa la consapevolezza che ha spinto Giosuè Di Maro, responsabile medici della Fp Campania, e Simona Grassi – appunto – a scrivere quel documento. “Le aggressioni rispondono a cause sistemiche e articolate", si legge nel documento che sottolinea come la distruzione del rapporto fiduciario tra personale e pazienti, lo smantellamento dei servizi sanitari, il sovraffollamento cronico nei pronto soccorso e i tempi di attesa insostenibili siano i veri motori di queste tensioni”.

Percentuale del personale aggredito in base al genere

Un fenomeno nazionale

Le aggressioni sono in aumento e i dati riportati dalla Relazione dell’Osservatorio sono probabilmente sottostimati, visto che non tutte le regioni hanno compilato in maniera dettagliata ed esaustiva il questionario inviato. In ogni caso, nel 2024, sono state segnalate oltre 18 mila aggressioni a livello nazionale, coinvolgendo circa 22 mila operatori, dato che un singolo episodio può colpire più persone. Oltre il 60% delle vittime è donna, prime in questa infausta classifica sono le infermiere, seguono mediche e medici e il personale socio-sanitario. Ovviamente l’ospedale – soprattutto i reparti di emergenza e urgenza, a partire dai pronto soccorso – è il luogo dove di registra il maggior numero di casi.

Barbara Francavilla (Fp Cgil) durante una manifestazione

Nuove norme, poco efficaci

Barbara Francavilla, segretaria nazionale della Fp Cgil, è membro dell’Osservatorio e prima di esser sindacalista è infermiera (lavorava in un ospedale della Capitale). Mescola quindi l’esperienza sul campo e la riflessione che deriva dallo svolgere un ruolo di rappresentanza. Il suo giudizio è netto: “Nell’ultimo anno non è cambiato nulla. Le persone continuano a essere maltrattate nei luoghi di lavoro, le aggressioni avvengono”. Anche per la segretaria la soluzione del problema non può essere esclusivamente affidata a incrementi delle pene o a risposte di tipo securitario. “Abbiamo più volte detto che il fenomeno va affrontato innanzitutto assumendo personale, formandolo in maniera specifica ad affrontare situazioni critiche, cambiando l’organizzazione del lavoro”.

C’è bisogno di servizi efficienti

Simona Grassi parla da un osservatorio “privilegiato”, un nosocomio nel cuore di Napoli dove la carenza di personale è cronica e tutti i medici della struttura sono chiamati a coprire turni al pronto soccorso. Per Grassi “il malumore che porta a fenomeni di aggressione nasconde un disagio, figlio di tante altre cose, dal taglio dei servizi alle liste d'attesa, dai tempi di attesa nel pronto soccorso alla qualità dei servizi che spesso tende a non essere adeguata alle aspettative giuste degli ammalati e dei loro familiari”. Cosa c’entrano le telecamere con tutto questo?

Generi di aggressioni subite

La risposta è semplice e la fornisce Francavilla: “Strumenti di tipo securitario o di controllo servono davvero a poco se non si affronta da un lato il problema della carenza del personale e del sovraffaticamento di quello in servizio, che spesso si sobbarca doppi turni e non rispetta i riposi, e dall’altro la questione della organizzazione del lavoro”. La segretaria aggiunge: “Occorre formare il personale alla capacità di comunicare con pazienti e familiari. In alcune regioni si sta sperimentando la figura dal facilitatore. È un operatore che si aggiunge al personale infermieristico e medico, che ha come mansione proprio quella di facilitare il rapporto e la comunicazione tra gli operatori sanitari e i familiari dei pazienti che sostano fuori dai pronto soccorso”.

Insomma, è anche in questo caso questione che attiene a quale idea di sanità pubblica si ha. Quella universalistica che investe su se stessa per migliorare la qualità dei servizi erogati e del lavoro dei professionisti, o quella residuale che si restringe sempre più favorendo una privatizzazione strisciante? La conclusione della dirigente sindacale è netta: “Noi pensiamo che occorra investire, pensiamo ci debba essere la volontà del governo, delle Regioni, delle aziende e delle strutture a mettere in campo le azioni necessarie, a partire dall’assunzione di personale”.

Identikit degli aggressori

La dignità di lavoratori e pazienti

Videocamere nelle sale dei pronto soccorso o nelle corsie di degenza. Lì gli uomini e le donne ricoverati sono spesso non coscienti e poco vestiti. L’esposizione della fragilità e della sofferenza cosa ha a che fare con la riduzione delle aggressioni? “E – osserva ancora Grassi –  le telecamere ritraggono anche il lavoratore in azione, perché non immaginare che all'occorrenza quelle immagini possano essere utilizzate anche contro il lavoratore o la lavoratrice anche se oggi vengono posizionate con un altro obiettivo dichiarato?”

Anche Grassi è stata vittima di un paio di aggressioni verbali che avrebbero potuto diventare fisiche. “La mia esperienza è che spesso, parlando e provando a capire il punto di vista dell'altro, i toni si smorzano molto. Però altrettanto spesso è difficile dare torto agli ammalati, certo non quando alzano le mani, ma quando lamentano attese di ore per essere visitati. La sensazione di solitudine e smarrimento vissuta da pazienti e parenti durante i percorsi di cura contribuisce ulteriormente a un clima di disagio”.

Il filo rosso della destra

Il documento campano traccia una linea di congiunzione tra quanto avviene nel Paese (il restringimento della democrazia) e la tendenza ipersecuritaria in sanità: “Non possiamo non vedere il filo rosso che lega questa politica di sorveglianza alla propaganda anti-immigrazione, alla narrazione securitaria che invoca soluzioni autoritarie e repressive, e alle politiche del decreto sicurezza del Governo Meloni che criminalizza il dissenso”.

Simona Grassi è netta nell’esprimere una preoccupazione profonda: “Tutto questo ha a che fare con il clima politico del Paese, non si può non metterlo in relazione, ad esempio, con la corsa al riarmo. Militarizzare gli ospedali vuol dire cominciare a portarsi avanti su un tema, quello di farci sentire costantemente in guerra. Il fatto che si taglino i fondi alla salute, all'istruzione per aumentare i fondi alle armi a noi sembra sia l'altra faccia di una stessa medaglia”.