Si può, in un momento in cui un grembiule riveste il niente di una riforma o il voto in condotta vorrebbe addirittura ridare ai nostri figli il senso dell’ordinato stare insieme, parlare serenamente della scuola e di come migliorarla? Il clima non è dei più favorevoli, mentre il governo su questi temi mette la sordina al Parlamento e i sindacati rispondono ai tagli e alle decisioni unilaterali del ministro con uno sciopero generale proclamato per il 30 ottobre. Insieme a Luigi Berlinguer proviamo per un po’ a chiudere le finestre su questo fragore e a ragionare pacatamente su un sistema d’istruzione che se, come ci ricorda sempre Tullio De Mauro, ha potuto nel dopoguerra e in pochi decenni triplicare il livello d’istruzione dei cittadini italiani, tuttavia non sempre è riuscito a rispondere sul piano della qualità a tutto ciò che un’istruzione di massa comporta e a migliorare davvero l’humus culturale del nostro paese. Tanto per dirne una, le copie di giornali vendute per abitante sono rimaste oggi le stesse del ’55, una ogni 11 persone nonostante il fatto che ormai quasi tutti vanno a scuola.

A 76 anni Berlinguer non ha perso lo spirito del riformista convinto e agguerrito sui temi dell’educazione. A ormai tanti anni di distanza dall’inizio con Lucio Lombardo Radice nella celebre Riforma della scuola – e dopo l’esperienza di ministro nel primo governo Prodi, tra 1996 e 2000 – il giurista guida due comitati ministeriali che si occupano di sviluppare la cultura scientifica e tecnologica e l’apprendimento pratico della musica nella scuola italiana; sta anche per mandare sul web una rivista online dedicata all’education. Berlinguer continua ad arrabbiarsi, soprattutto, quando vede che la scuola, anziché diventare questione nazionale, tema pubblico nel senso più alto del termine – come ha auspicato recentemente il presidente della Repubblica – rimane terreno di scorribande per operazioni ideologiche.

“L’ideologismo con cui si affrontano questi problemi – scandisce – non è che una mistificazione del reale, una copertura rispetto alla mancanza di analisi sociali che facciano emergere i problemi veri della scuola. In questo modo è difficile trovare una base comune e senza base comune non si cambia nulla. Si legittima invece questa follia per cui non appena si va al governo bisogna ricominciare tutto da capo. È una modalità questa inaugurata dalla Moratti il cui obiettivo è stato sin dall’inizio molto preciso: cancellare con una sorta di damnatio memoriae quanto fatto dal suo predecessore. Ma non ha ottenuto alcun risultato perché, come si sa, la riforma Moratti è rimasta lettera morta nelle scuole”.

Il Mese Un quinquiennio fa nell’avviare una grande riforma scolastica il governo francese intraprese una straordinaria consultazione telematica per coinvolgere tutti i soggetti del sistema. Chirac pronunciò addirittura un discorso alla nazione. Perché tutto questo non è possibile nel nostro paese?

Berlinguer
Vede, sia in Francia che in Italia parte della scuola e dell’opinione pubblica ritiene che le novità indotte dalla società di massa distruggano ogni bene culturale e in particolare l’istruzione. La differenza è che, mentre queste posizioni in Francia sono state sconfitte, da noi la paura del cambiamento rimane in aree importanti sia della sinistra che della destra. Basti considerare il tema dell’autonomia scolastica: il radicalismo di sinistra la combatte perché ritiene che sia un prodromo all’entrata dei privati nella scuola, certa destra invece non la ama perché, nel profondo, è rimasta centralista. In entrambi i casi si tratta di posizioni gentiliane. Dirò una cosa un po’ forte, ma secondo me il “fatto” non digerito dalla Prima Repubblica e dai nostalgici è proprio la scuola di tutti.

Il Mese
In che senso?

Berlinguer Il nostro è un paese in cui un intellettuale come Pietro Citati può scrivere su un grande quotidiano, e senza vergognarsene: “Il falegname faccia il falegname”. La frase giusta è un’altra: il falegname faccia il falegname, se vuole, ma sia più colto, più preparato. La sostanza retriva della nostalgia della scuola dei bei tempi andati, che influenza tutti gli opinion makers e molte redazioni dei giornali, è nel rifiuto che tutti abbiano diritto a imparare. Ovviamente non lo dicono, ma il senso è questo. Insieme alla presunzione che inclusione ed equità siano inversamente proporzionali alla qualità dell’insegnamento o addirittura inconciliabili. Per i conservatori la scuola di massa rappresenta un grande problema perché è uno straordinario ascensore sociale. Oggi nella scala sociale si cresce non solo con il reddito ma, prima ancora, con la cultura a tutto tondo: e cioè con il sapere e la qualità professionale. Ma questo obiettivo importantissimo di conciliare qualità ed equità dell’insegnamento si sente all’interno del dibattito arroventato che oggi divide? Assolutamente no. Persino una questione elementare, come quella che nella scuola bisogna valorizzare il merito, non viene letta nel senso che le è proprio (e cioè che bisogna stimolare l’apprendimento e apprezzare chi lo fa di più e meglio) ma in una chiave selettiva, malthusiana direi.

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In molte interviste e scritti lei ha insistito sulla “pesantezza” delle radici gentiliane nella scuola italiana…

Berlinguer
Senza dubbio. La precisa ragione storica che ha bloccato il progresso della cultura educativa italiana è il gentilismo: un’idea classista e socialmente selettiva della scuola fondata sulla didattica deduttiva e sull’uso della sola teoria, prescindendo totalmente dalla pratica. Un’impostazione fondata su un’idea di cultura totalmente estranea a motivazioni utilitaristiche e intesa solo come studio disinteressato: un approccio, questo, digeribile solo da una piccola élite, da alunni che hanno una famiglia colta, libri in casa e minor bisogno di lavorare. Per costoro si è fatta la scuola “migliore”, il resto era per i “falegnami”, compresi gli istituti tecnici. La scuola elementare funziona meglio delle altre proprio perché è la meno gentiliana di tutte. I bambini per apprendere hanno bisogno di toccare, sperimentare e, inoltre, risulta assai difficile pensare di selezionare socialmente già in questa fase. Questo spiega perché i maestri, pur con un percorso di studi che è stato per lungo tempo più breve e meno ricco di quello dei professori, hanno dato spesso miglior prova di sé. È la didattica, in questo caso, a fare la differenza. Gentile al contrario è il padre di quanti pensano che per insegnare basta conoscere la propria materia, in assoluto sprezzo degli strumenti e delle pratiche per farlo. Ma questa è una bestemmia, soprattutto quando la folla di discenti è così eterogenea come quella attuale.

Il Mese Cosa occorre fare, allora, per superare questa pesante eredità gentiliana?

Berlinguer Occorre innanzitutto assegnare un ruolo centrale ai contenuti displinari e ai metodi, mentre finora ha sempre prevalso una riflessione sulle cornici e sugli ordinamenti giuridico-istituzionali. Ora la cornice c’è, è l’autonomia che ha svuotato il Leviatano di viale Trastevere (la sede del ministero della Pubblica istruzione, ndr): dobbiamo partire da qui.

Il Mese Cominciamo dai metodi.

Berlinguer Innanzitutto occorre chiudere con una didattica deduttivistica ed esclusivamente teorica, quella di un sapere che dall’alto scivola addosso agli studenti. Senza teoria non c’è cultura. Ma si può, come spesso accade nei nostri istituti, insegnare la fisica solo sui libri di testo? La scienza è intreccio tra esperienza e astrazione, ma questo intreccio la nostra scuola lo ha mutilato. Non è così nel resto del mondo: nel loro primo giorno di scuola i ragazzi giapponesi entrano in un laboratorio, non in un’aula. Qualche tempo fa il “Gruppo di lavoro per lo sviluppo della cultura scientifica e tecnologica” che dirigo ha realizzato un’indagine per verificare quanti sono i laboratori nelle scuole e come funzionano. Il dato grave non è risultato tanto nel loro numero (certo insufficiente) quanto nel fatto che i docenti li usano poco, episodicamente, e quando questo accade sono loro quasi sempre a fare gli esperimenti. Gli studenti stanno a guardare. La prima rivoluzione da fare è questa: capovolgere lo stato delle cose e rendere gli studenti protagonisti dell’apprendimento.

Il Mese Il suo discorso, però, sembra valere solo per le materie scientifiche.

Berlinguer Non è così. Vale anche per le materie umanistiche. E inoltre, perché nella scuola gentiliana c’è solo la letteratura e quasi per nulla la pratica artistica e musicale? Forse perché queste ultime due discipline sono maggiormente connesse con il fare. Se come dicevo la scuola è un ascensore sociale, allora bisognerebbe sviluppare anche la creatività. Ma è una cosa che a molti fa paura. Nella seconda edizione del Leviatano Hobbes scrive: “Sarà bene tenere la musica fuori delle città perché induce alla ribellione”. Nella scuola attuale si è ridotta pesantemente la creatività del discente e di chi insegna. Per definirla con uno slogan si potrebbe dire: dirigismo, centralismo e selezione di classe.

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Passiamo ora ai saperi.

Berlinguer Riporto alcuni dati. La quantità di sapere elaborata dall’umanità tra il 2000 e il 2004 è pari a quella elaborata dal 1970 al 2000; e quella accumulata dal ’70 a oggi è uguale a quella accumulata dall’origine dell’uomo agli anni settanta. È possibile, mi chiedo, che i curricoli della nostra scuola non siano stati investiti da questo tsunami? E cosa pensare, poi, del fatto che in trent’anni gli studenti della scuola secondaria sono passati da 400.000 a 3 milioni? Tutti questi cambiamenti la scuola italiana non li ha registrati, ma solo subiti. E non è solo un problema di quantità ma anche di diversa qualità dei saperi. Quando io andavo a scuola imparavo tutto in classe; oggi il 70% di quello che entra nelle teste dei nostri ragazzi viene da fuori, dalla cosiddetta cultura informale. Se la scuola non aggiorna le sue grammatiche e non governa il rapporto con queste altre fonti, che producono comunque saperi, fallisce. Se ci limitiamo a dire che la televisione produce solo frivolezze e volgarità, non andremo lontano.

Il Mese Però anche questo è vero...

Berlinguer Certo, e bisogna dirlo, tuttavia resta il fatto che oggi il linguaggio è quasi totalmente multimediale, mentre a scuola è solo verbale e scritto con la penna: preguthenberghiano, direi. Ancora una volta dietro a questi atteggiamenti di sprezzo per il presente e di nostalgia per un presunto passato in cui tutto funzionava alla perfezione e i ragazzi studiavano senza fare storie si nasconde un forte spirito conservatore. C’è uno scritto anonimo caldeo del duemila (dico 2000!) avanti Cristo che recita: “La nostra gioventù, infanzia e adolescenza è decadente e indisciplinata, i figli non ascoltano più i consigli dei genitori”. Pensi. Anche quattromila anni fa si ripetevano le stesse litanie conservatrici!

Il Mese Torniamo indietro nel tempo. Al suo nome è legata una “legge di riforma dei cicli” che fu poi azzerata dal successivo governo di centro-destra. Tra i suoi elementi qualificanti vi era l’idea di un’unificazione del ciclo primario: sette anni tra scuola elementare e media (anziché gli otto odierni). In questi giorni si parla di riforma a proposito di alcuni provvedimenti, come il maestro unico, che sembrano avere solo obiettivi di risparmio e nessun pensiero pedagogico alle spalle. Ma lei la “sua” riforma la ripresenterebbe oggi?

Berlinguer Assolutamente sì. È attualissima. Così disegnato il nuovo ciclo primario presentava alcuni indubbi vantaggi: accompagnava con maggiore gradualità i bambini nel passaggio dalla quinta elementare alla prima media (e noi sappiamo che tanto disagio scolastico nasce proprio in questa fase) e, riducendo di un anno la durata del ciclo di studi, faceva sì che i ragazzi uscissero da scuola a 18 anziché a 19 anni, come accade in tutta Europa. In più si otteneva un bel risparmio di risorse. Sia chiaro: le riforme vanno fatte per riformare, per migliorare la scuola. E si può (e si deve) anche risparmiare. Lo ha detto qualche settimana fa lo stesso presidente della Repubblica.