Il reddito di cittadinanza non deve essere abolito ma migliorato. Lo sostiene la Commissione europea, ribadendo che va rafforzato perché “è necessario un sostegno più efficace per combattere la povertà e per promuovere l’occupazione“, con un’inflazione già alle stelle e le bollette in crescita vertiginosa. Lo dicono Caritas, Cei, Forum Disuguaglianze Diversità e Alleanza contro la povertà, secondo cui bisogna fortificare le politiche sociali e cambiare i requisiti di accesso, perché troppi poveri rimangono esclusi. Lo afferma il comitato scientifico per la valutazione dell’RdC messo in piedi dall’ex Ministero del Lavoro, e poi ancora esponenti del mondo cattolico, della sinistra, della società civile.   

Il 45,8 per cento sono lavoratori

La misura introdotta nel 2019 dal primo governo Conte, guidato dal Movimento 5 Stelle e da Lega per dare un sostegno al reddito delle famiglie e dei lavoratori, nei primi nove mesi del 2022 è stata percepita da 1.638.628 nuclei (almeno una mensilità di reddito o pensione di cittadinanza), con più di 3 milioni e mezzo di persone coinvolte e un importo medio di 551,51 euro (dati Osservatorio Inps).

Secondo uno studio dell’Inapp, Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche, il 45,8 per cento dei percettori sono lavoratori poveri. Occupati ma costretti a chiedere un’integrazione salariale allo Stato per le retribuzioni “da fame”, anche a causa della cronicizzazione dei contratti a tempo determinato e dell’utilizzo massivo del part-time involontario.

Difficile quindi pensare che sia davvero un “metadone” o una “paghetta di Stato”, come l’ha definita in campagna elettorale la candidata premier Giorgia Meloni, che con i suoi Fratelli d’Italia e gli altri partiti della coalizione delle destre ha promesso prima la cancellazione e poi il sostanziale smantellamento di uno strumento già da tempo nel mirino anche di parte del centrosinistra, confermando la sua posizione di contrarietà nel discorso per la fiducia alla Camera da presidente del Consiglio.

Sotto la lente

Certo è che il reddito di cittadinanza sarà sotto la lente di ingrandimento del nuovo Parlamento. “Le posizioni si sono un po’ ammorbidite, per via dei disastri che si stanno verificando, dall’aumento delle bollette all’inflazione – afferma Chiara Saraceno, sociologa e docente universitaria -. Da aboliamo il metadone di Stato siamo passati alla versione: lo diamo solo a chi non è in grado di lavorare, ai fragili, a chi ha figli minori a carico. In realtà non si sa bene a cosa stia pensando la maggioranza di governo, forse a una borsa lavoro, ma da attribuire a chi? Mamma, papà, figli minorenni e maggiorenni?”.

Raccontato come la causa di ogni male della nostra economia, perché nella narrazione politica e giornalistica che lo ha accompagnato ha prodotto solo “fannulloni” e “disoccupati da divano”, il reddito di cittadinanza ha salvato dal baratro della povertà più di un milione di persone. Poche, rispetto alla realtà del nostro Paese.

Povertà in crescita

Secondo l’ultimo rapporto Caritas in questi tre anni e mezzo ha raggiunto poco meno della metà dei poveri assoluti, 5.571.000 persone (1 milione 960 mila famiglie) che rappresentano il 9,4 per cento della popolazione residente. Un dato che è cresciuto nell’ultimo anno, con un’incidenza che si conferma più alta al Sud, con il 10 per cento, ma che scende significativamente nel Nord-Ovest (al 6,7 dal 7,9 per cento). Tra il 2020 e il 2021 la povertà è aumentata più della media nelle famiglie con almeno quattro componenti, con la persona di riferimento di età tra i 35 e i 55 anni, in quelle degli stranieri e con almeno un reddito da lavoro.

Allargare la platea

“Quello che sappiamo è che non va cancellato, anzi, va esteso, modificato allargando la platea. Se venisse abolito avremmo molti più poveri di quelli che abbiamo adesso e oltretutto l’intensità della povertà sarebbe maggiore – riprende Saraceno -. L’Istat ci dice infatti che il reddito di cittadinanza non ha fatto superare la soglia di povertà ma ne ha ridotto l’intensità. Questo vale per percettori che pur essendo occupati possono finalmente portare i figli dal dentista, che si possono permettere beni e servizi che dovrebbero essere basic e accessibili a tutti. Mentre il dentista da noi è un lusso perché non fa parte del servizio sanitario nazionale”.

Discriminazione e proposte

La professoressa Saraceno è stata alla guida del comitato scientifico per la valutazione del RdC nominato dal ministro del Lavoro Orlando del governo Draghi, che alla fine del lavoro ha presentato una serie di proposte di modifica per migliorarlo e renderlo più efficace.

“Su quello che andrebbe fatto, il Comitato, la Caritas, l’Alleanza contro la povertà, siamo tutti più o meno d’accordo – dice -. Contrariamente a quello che pensa l’attuale governo, bisogna allargarlo e non restringerlo. Innanzitutto occorre togliere la discriminazione nei confronti degli stranieri per i quali oggi sono necessari 10 anni di residenza, di cui gli ultimi 2 continuativi. Un simile criterio fa di noi il Paese in Europa con i requisiti più stringenti e non è rispettoso delle direttive in materia di accesso alle prestazioni assistenziali, poste a tutela anche degli italiani all’estero. Per questo, bisognerebbe portarlo a cinque anni”.

Tra le altre proposte, equiparare i minori agli adulti nelle scale di equivalenza, differenziare il contributo per l’affitto, non penalizzare chi lavora, ridefinire i criteri di lavoro congruo per stimolare l’accesso all’occupazione, promuovere l’assunzione dei percettori da parte delle aziende e rafforzare i patti per l’inclusione e i progetti di utilità collettiva.

Politiche attive cercasi

“D’altra parte da noi c’è un problema di politiche attive del lavoro che non ci sono e sul cui fronte chissà cosa succederà – aggiunge Saraceno -. Non basta affidarsi al meccanismo della domanda-offerta, le politiche attive sono una cosa seria, hanno bisogno di attenzione, formazione, consulenza, motivazione e risorse, e anche sul piano dei servizi di inclusione bisogna darsi da fare molto di più. Penso a quanti sono molto lontani dal mercato del lavoro, che hanno bisogno di essere affiancati e qualificati, ai neet (giovani che non studiano e non lavorano, ndr). Non è vero che i percettori rifiutano le offerte, nessuno lo ha mai dimostrato, a parte quegli imprenditori che lo dichiarano in interviste prive di qualsiasi evidenza empirica”.

Da qui la necessità condivisa da più parti di rafforzare la collaborazione e il coordinamento tra i centri per l’impiego e i servizi sociali territoriali tramite la definizione di protocolli di lavoro congiunto e di promuovere l’utilizzo integrato delle banche dati degli enti coinvolti.

La raccomandazione europea

“Aggiungo che a fine settembre la Commissione europea ha inviato agli Stati membri una proposta di raccomandazione – conclude Saraceno - che incoraggia i Paesi ad adottare un reddito minimo adeguato a garantire una vita dignitosa, misure di inclusione sociale efficaci ed efficienti, laddove le persone siano in grado di lavorare, politiche attive per assicurare un lavoro buono. Tra i punti della proposta, migliorare l’adeguatezza, usare una metodologia trasparente e solida, migliorare la copertura e il ricorso pur salvaguardando gli incentivi al lavoro. Insomma, tutto l’opposto rispetto a quello che vorrebbero fare i partiti al governo”.