Voglio raccontarvi una storia, la mia. Sono dipendente di una nota cooperativa sociale di Bologna, diventata nel corso degli anni un'istituzione, per il suo impegno in favore degli "ultimi". Quando sono stata assunta (a tempo indeterminato, con tutele crescenti) si stava riassestando, poi man mano è cresciuta. Non passano neanche due anni dalla mia assunzione e rimango incinta. Il mio è considerato un lavoro a rischio e prevede perciò l'interdizione anticipata, più 7 mesi di maternità obbligatoria post parto. Divento mamma. Alla fine dell'astensione obbligatoria, ricorro per un periodo a quella facoltativa.

Nel frattempo, succede che rimango incinta di nuovo. Stesso iter. Di nuovo obbligatoria, ferie e un periodo di facoltativa. Passa veramente un sacco di tempo, tre anni dall'ultima volta che sono andata a lavoro, ma tutto è avvenuto secondo le regole. Nel frattempo, in cooperativa ci sono stati molti cambiamenti, poi è arrivato il Coronavirus. Slitto ancora un po' il ritorno, ma poi basta. Sono un po' stanca di fare solo la mamma, ho voglia di tornare a lavorare, e ne ho anche bisogno. Non posso permettermi a lungo il congedo parentale con lo stipendio al 30%.

Già dopo il primo figlio, in vista del mio ritorno al lavoro avevo chiesto un cambio di servizio, perché gli orari che facevo, in particolare un turno di notte, non mi avrebbero consentito di conciliare vita lavorativa e attività di cura dei bambini. Non è stato infrequente in questi anni che un lavoratore sia passato ad altro servizio, su propria richiesta. Ma a me dicono che non si può. Dopo il secondo figlio, mi viene proposto di ridurre il monte ore, ma i miei orari non possono cambiare. Con due bambini, senza asili, senza nonni, diventa tutto difficilissimo da gestire e sono costretta a ricorrere al congedo parentale per ogni turno di notte. A quel punto, vengo spostata su un altro servizio, con un nuovo contratto, su cui viene riportato che io accetto le fasce orarie comunicate dal coordinamento, senza specificare quali siano. Non lo firmo, perché non mi è stato comunicato niente. 

La Cgil, a cui sono iscritta, chiede alla cooperativa che il contratto sia conforme alle norme, che nel caso del part time parlano chiaro: vanno indicate la durata della prestazione e la collocazione temporale. Ma per tutta risposta, mi si propone di tornare alla mia vecchia posizione, quella con orari rigidi e predefiniti. Solo che neanche lì io rispettavo gli orari riportati sul mio contratto, rimanendo sempre più a lungo del dovuto. Inoltre è uno sportello sociale che richiede presenza fisica, perciò niente lavoro da casa. Sapevano che in questo modo mi avrebbero reso impossibile il ritorno.

Nel nuovo servizio, in cui mi avevano spostata da maggio, me la potevo cavare con lo smart working. È stato faticosissimo, ma in qualche modo si faceva. Il mio compagno, consapevole della delicatezza del momento, si è preso vari congedi, dandomi la possibilità di riaffacciarmi al lavoro con meno affanno.

Da anni, nel mio ambiente di lavoro sento ripetere in maniera quasi ossessiva una parola: flessibilità. Ma la disponibilità (pretesa e concessa da chi lavora nel sociale) inducono a considerare situazioni come la mia come qualcosa di ineluttabile. Avviene e basta. Io non pretendo di avere orari di ufficio, ma mi piacerebbe poter essere sia lavoratrice che madre. Ho due bambini piccolissimi, se potessi permettermi di essere a disposizione della cooperativa dalle 9 alle 18, avrei chiesto di passare a un full time. Almeno avrei avuto uno stipendio dignitoso. Non tutti hanno la fortuna di una rete familiare, o risorse economiche che permettono di organizzarsi la vita giorno per giorno. È avvilente pensare che diventare mamma ti costringa a scegliere tra il lavoro e i figli. Certo, se accade in una grande multinazionale fa tristezza, ma almeno te lo aspetti. Che tutto questo capiti in una cooperativa orgogliosa di essere a fianco degli ultimi, mi sembra paradossale.

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