Nella foto che ha caricato sul suo profilo WhatsApp Mayda sorride, ride con gli occhi, canta a pochi centimetri dal microfono e si accompagna con un arpeggio sulla chitarra. Mayda è cubana. Da circa trent'anni vive in Italia, a Roma. Ha la cittadinanza italiana e “sì – ammette con orgoglio – sono un’artista. Canto ancora, non smetterò mai di farlo. Ma quando sono arrivata in Italia ho dovuto fare una scelta. Come dire, o cantante o badante. Non puoi staccare dalla musica alle tre del mattino e attaccare col lavoro di cura cinque ore dopo”.

Per anni Mayda si è occupata delle case degli italiani e dei loro nonni, accudendo gli spazi e gli oggetti, curando le persone. “Sono sempre stata precaria”. Ma coi contributi era in regola. Adesso anche l’amarezza per quell’aut aut tra arte e lavoro cui la vita l’ha costretta molto tempo fa sembra stingere, oscurata da un dramma maggiore che si chiama disoccupazione, isolamento in casa, telefono che non squilla. La quarantena sua personale e collettiva dovuta al Covid-19 la sta privando del lavoro e del reddito.

“Ho perso il lavoro a febbraio - racconta -, lavoravo come badante per una signora di 93 anni. Dodici ore per circa 300 euro a settimana. Ho chiesto subito l’assegno di disoccupazione ma, secondo lei, quanto riceverò? Dai conti che mi sono fatta dovrei avere 150, 170 euro. Se va bene. Ho visto una cifra simile accreditata sul mio conto corrente a marzo. Forse è già il mio assegno. Non lo so. Ma come ci pago l’affitto? Come ci faccio la spesa? Ora che anche mio marito è disoccupato?”. Mayda potrebbe prendersi cura di altri anziani che ne avrebbero un bisogno drammatico, in questi giorni di abbandono, ma sia lei che loro sono tutti, individualmente, isolati in tante piccole bolle, e non possono aiutarsi a vicenda. Il problema è che Mayda adesso non ha nulla. Ma ha diritto a tutto. Ed è arrivato il momento che qualcuno si prenda cura di lei.

Foto di Simone Sensore, Sintesi

Accanto a una storia di reddito falcidiato se ne potrebbero raccontare molte altre di badanti, o collaboratrici domestiche, che continuano a lavorare presso abitazioni e famiglie, magari in nero, magari senza dispositivi di protezione individuale, oppure costrette a procurarseli da sé e a proprie spese, se sono “fortunate”, in una qualche farmacia generosa. L’emergenza della pandemia e il lockdown aumentano rischi e ingiustizie per un popolo grande quanto una città: sono due milioni le persone impiegate in lavori di cura, e solo 860mila di loro sono in regola, iscritte agli elenchi dell’Inps.

 

“A causa del Coronavirus ho perso metà del mio lavoro”

Una di loro è Munara, 32 anni, kirghisa. Vive in Italia da dieci anni. A Napoli. Ha una figlia di due anni e mezzo. “Sono ragazza madre - ci racconta -. A causa del Coronavirus ho perso metà del mio lavoro. Mi hanno detto: ‘Ci sentiamo quando finisce tutto’. Mi è rimasta l’altra metà: il lavoro al mattino, di quattro ore, presso una signora anziana disabile, sulla sedia a rotelle. Mi occupo di lei e del marito, faccio la spesa, cucino. Questa signora è fortunata perché a gennaio mi ha fatto il contratto, prima della quarantena. Senza un contratto regolare di lavoro non potrei uscire di casa tutti i giorni, mi farebbero la multa. Cerco di non prendere l'autobus perché ho paura. Quindi, a piedi, andata e ritorno sono quasi due ore di viaggio. Certo sto rischiando di prendere il virus, ci penso ogni giorno che esco. Ma cosa devo fare? Indosso guanti e una mascherina che mi sono cucita da sola, e quando torno a casa la lavo. Le mascherine chirurgiche non le ho trovate. Un giorno ho detto alla signora che non potevo andare, perché temevo di contagiare mia figlia, e lei si è messa a piangere: ‘Se non vieni, io come faccio?, chi mi aiuta?’”.

 

Cento euro

Munara a casa ha anche una nipote, che bada a sua figlia quando lei va al lavoro. E ha una madre che adesso ha perso il lavoro. I soldi, è evidente, non bastano. Munara deve pagare l’affitto e le avanzano non più di cento euro per tutto il mese. Alcune bollette per ora ha deciso di non pagarle, “anche perché è consentito dai decreti, no?”. Ma quattro persone devono mangiare. Come si fa? “Sono andata in un centro dove distribuiscono pacchi alimentari, ma sono arrivata troppo tardi, non c’era più nulla. Mi hanno detto che la settimana prossima forse arriva qualcosa, ma dovrò andare due ore prima. Ho provato a fare domanda per il bonus sul sito dell’Inps, ma non funzionava, non capisco perché”. Mentre Munara parla al telefono irrompe, sullo sfondo, la risata di una bambina che gioca e fa rumore. “Scusi, devo andare, mia figlia mi vuole”.

Photoshot/Ag.Sintesi

 

Mascherine, contratti, ammortizzatori sociali

Due categorie sindacali della Cgil scendono al fianco di colf e badanti in questi giorni difficili. Una, dal lato dell’utenza, è lo Spi, il sindacato dei pensionati. L’altra, dal lato della rappresentanza, è la Filcams, la federazione dei servizi. Le due organizzazioni “chiedono interventi urgenti a governo, Regioni e Comuni”, si legge in una nota unitaria, per affrontare e risolvere tre priorità: “Le mascherine a carico delle lavoratrici e difficili da reperire”, il servizio reso “senza contratti e in condizioni di irregolarità”, la mancanza di ammortizzatori sociali. Per Spi e Filcams occorre sostenere immediatamente “il mondo sommerso delle collaboratrici domestiche e delle badanti, per lo più donne e straniere, la maggior parte delle quali operano nelle case degli anziani e rappresentano un pezzo importante del welfare italiano e un supporto indispensabile per le nostre famiglie”.

Per quanto riguarda i dispositivi di protezione individuale (prima richiesta), i sindacati indicano come si debbano superare le “soluzioni artigianali”: “Dovrebbero essere garantiti dalle istituzioni regionali e comunali, visto che sono necessari a evitare la diffusione del contagio in un contesto particolarmente a rischio come quello familiare, dove vivono anche anziani in condizioni spesso di non autosufficienza”. La seconda richiesta riguarda la “regolarizzazione delle posizioni in nero attraverso un sistema di incentivi e di detrazioni per le famiglie”. La terza richiesta, infine, verte sull’accesso agli ammortizzatori sociali, da cui queste lavoratrici sono state finora ingiustamente escluse, per sostenere chi di loro si è ritrovata senza lavoro a causa della diffusione del coronavirus”.

 

“Mio marito, dicevo, ha perso il lavoro”

Anche mio marito è disoccupato - riprende il racconto di Mayda -. È venezuelano. Lavorava in servizi di facchinaggio. Pure lui precario, come me. Licenziato, come me. A febbraio, come me. Ci è accaduto tutto simultaneamente. Ci facciamo forza e compagnia. Siamo qui, chiusi in una casa di cui non sappiamo come pagheremo l’affitto. Secondo lei quanto possiamo andare avanti in queste condizioni?”. Mayda ha una figlia che, per fortuna, è autosufficiente: “Lavora all’aeroporto, in un modo o nell’altro se la cava”. Ma altre preoccupazioni si aggiungono dai paesi di origine, dalle madri che Mayda e il suo compagno hanno a Cuba e in Venezuela: “Sono disperate, non possiamo più mandare loro quei cinquanta, cento euro al mese che erano indispensabili per vivere”. La onlus che le trovava lavoro non si fa viva da settimane. Mayda non si stupisce: “Ora dobbiamo stare tutti in quarantena. Anche volendo, quale famiglia si prenderebbe in casa un’estranea, col rischio di contagio e di trasgredire qualche decreto?”.

Foto Sintesi

 

L'emergenza nell'emergenza

“È emergenza nell’emergenza per il lavoro di cura e assistenza”, commentano i segretari generali di Filcams e Spi, Maria Grazia Gabrielli e Ivan Pedretti, “i timori del contagio, le difficoltà di reperire e gestire i dispositivi di protezione e le ristrettezze economiche stanno mettendo in difficoltà i lavoratori del settore e le famiglie, loro datori di lavoro. È indispensabile intervenire presto con misure di sostegno e protezione, a tutela della salute e del lavoro: essenziale per famiglie e anziani.”

“Nei momenti più complicati le fragilità si accentuano - ammette Luciana Mastrocola della Filcams -. La maggior parte di queste lavoratrici sono rimaste a casa perché le famiglie hanno paura che siano veicolo di infezione. Non dimentichiamo che il settore per l’88% è costituito da donne, e che il 71% sono immigrate. Quindi non hanno riferimenti, non hanno redditi familiari a cui appoggiarsi. Le badanti che hanno perso il lavoro, poi, hanno perso anche l’alloggio, non solo lo stipendio. E, con la chiusura delle frontiere e dei voli, chi contava di tornare al paese di origine non può fare nemmeno questo. Siamo all’esasperazione, insomma. Abbiamo firmato con le associazioni datoriali un avviso comune di richiesta dell’applicazione della cassa in deroga anche al lavoro domestico, proprio per tutelarlo in una fase di sospensione, esattamente come è successo per tutti gli altri lavoratori. Quanto all’emersione dal nero, per chi ancora sta lavorando, devono essere prese misure di agevolazione. Una potrebbe essere la possibilità, concessa alle persone non autosufficienti, di dedurre dal proprio reddito le spese per salario e contributi delle badanti, così da rendere conveniente restare in regola. Ma si dovrebbe intervenire anche sull’aggiornamento del decreto flussi: l’ultimo è stato elaborato solo per lavoratori stagionali e studenti. Infine si dovrebbe consentire la regolarizzazione di tante lavoratrici straniere che vivono in Italia da anni, e che, senza il permesso di soggiorno, non possono emergere”.

 

“I vecchi di questo paese”

“I vecchi di questo paese sono quelli che nella distrazione di tutti sono andati in trincea - commenta Antonella Pezzullo, segretaria nazionale dello Spi - e all’inizio non ce ne siamo neanche accorti. Perché sono chiusi nelle Rsa, nelle case famiglia, nelle loro stesse abitazioni. Sono bersagli facili del virus, ma nello stesso tempo hanno bisogno che le forme di assistenza, anche individuale, proseguano. Quindi il lavoro delle badanti è estremamente importante. Queste donne a volte sono le uniche persone che si prendono cura degli anziani non autosufficienti. Non dare a queste lavoratrici la possibilità di continuare a lavorare, con i diritti e le tutele sanitarie di tutti gli altri, significa nuocere ancora di più agli anziani. Ma non esiste sicurezza del paziente, a maggior ragione in questo caso, se non c’è sicurezza del lavoratore. L’assenza di dispositivi di protezione individuale è stato uno dei fattori che hanno moltiplicato a dismisura la patologia. Gli anziani fragili hanno bisogno di cure e ‘contatto’ assiduo. Non si può badare loro a distanza. Perciò è fondamentale che anche nelle abitazioni, come negli ospedali e nelle case di riposo, siano garantite tutte le misure per la salute e la sicurezza. Ed è un tema che riguarda le istituzioni. Non possiamo lasciare famiglie e badanti da sole ad affrontarlo”.