L’11 agosto 1892 nasceva Giuseppe Di Vittorio (Peppino sarà dichiarato all’anagrafe di Cerignola il 13 agosto).

Così Gianni Rodari ne descrive l’infanzia:

Dopo che gli era morto il padre, Peppino Di Vittorio, che faceva la seconda elementare, aveva dovuto lasciare la scuola e andare a giornata, a zappare, a grattare la terra, a dormire tutte le notti in quello stanzone, perché la masseria era troppo lontana, e tornare a casa la sera non si poteva. Era stato un brutto giorno, per il ragazzo, l’ultimo giorno di scuola. Aveva avuto ancora una coccarda: la coccarda tricolore del più bravo della classe, che toccava a lui quasi tutti i giorni. E i figli dei ricchi l’avevano scherzato ancora una volta: - Guardate che bella coccarda! - ridevano, e accennavano a una grossa toppa cucita nei pantaloni. Ancora una volta Peppino era arrossito per lo scherzo crudele: la povertà non è vergogna, ma a nessuno piace essere schernito per la sua povertà. - Io non ho colpa, se sono povero - pensava il ragazzo, contemplandosi gli abiti meschini, tenuti insieme a toppe e rammendi.
Aveva lasciato la scuola, ma i libri non li aveva lasciati. Qualche soldo per sé riusciva ad averlo, adesso che lavorava: e si faceva assegnare anche del lavoro straordinario, per avere qualche soldo in più. E ogni volta che la somma bastava, si comperava un libro. Di notte, mentre i suoi compagni dormivano, si ficcava i pugni alle tempie, dandosi dei colpi per tenersi sveglio, e leggeva. Leggeva ogni sorta di libri, tutto quello che gli capitava. A poco a poco i suoi compagni - ragazzi come lui, e uomini fatti, ed anche vecchi braccianti, rugosi come la terra - cessarono di scherzare su quella passione per i libri. Gli si facevano attorno, gli chiedevano: - Che cosa dice il tuo libro? Che cosa c’è scritto? - Allora Peppino era felice: si sentiva ricco, perché gli altri avevano bisogno di lui, perché aveva già qualche cosa da dare agli altri. Per un’ora, per due, prima di dormire, i braccianti ascoltavano le storie che Peppino narrava. Questo però gli rubava tempo per la lettura: allora inventava un finale per la storia. "È finita", diceva, e si gettava sul pagliericcio a leggere.
Di giorno, sui campi, era un ragazzo come tutti gli altri: passavano i guardiani a cavallo, passava il padrone, e nessuno avrebbe potuto distinguere dai suoi compagni quel ragazzetto dal viso scuro, quasi schiacciato dalla folta capigliatura nera. Di sera, nel silenzio dello stanzone, rotto dal respiro pesante dei lavoratori addormentati, Peppino era un altro: era solo, in mezzo a tutti e faceva la sua strada. Ogni riga della pagina era un passo in avanti. Ogni pagina, un ostacolo scavalcato. Ogni libro letto, una conquista. Il piccolo ragazzo pugliese si vedeva spalancare davanti un mondo nuovo, pieno di storie meravigliose e terribili, pieno di luci e d’ombre, pieno soprattutto di domande. Perché ci sono i poveri? Perché i poveri sono poveri e i ricchi sono ricchi? Perché noi possiamo avere soltanto pantaloni pezzati, e fame, e fatica, e brutte parole? Perché? Perché? Il ragazzo solleva gli occhi dal libro, si guarda attorno.
La luce della candela gettava occhiate oscillanti sui corpi anneriti dal sole, oppressi dalla fatica: se non fosse stato per il loro respiro, sarebbero sembrati tutti morti. Ah, svegliarli, gridare: "Sorgete uomini, non siete nati per essere schiavi, ma padroni del vostro lavoro e della vostra vita". No, questo pensiero non poteva balenare nella mente del piccolo bracciante di quel tempo: più di cinquant’anni fa... Più di cinquant’anni sono trascorsi da quelle notti, e il piccolo bracciante pugliese è diventato il dirigente di tutti i lavoratori italiani, il presidente della Federazione sindacale mondiale: operai e contadini d’Europa, d’America, d’Asia, d’Africa, d’Australia, conoscono il suo nome e la sua vita, hanno fiducia in lui. La sua parola e la sua lotta hanno contribuito a destare milioni di uomini, a chiamarli alla vita, a insegnare loro che si può trasformare il mondo e renderlo bello e degno. Anche voi potete diventare uomini amati e stimati come Giuseppe Di Vittorio: non ci sarà bisogno per questo - i tempi sono cambiati - che passiate le vostri notti a leggere al lume di candela. Basterà che amiate la giustizia, il sapere, la generosità, il coraggio. Ci sono ancora uomini che dormono, e sarete voi a svegliarli.

Una vita, quella di Giuseppe Di Vittorio, avventurosa e intensa, che spesso sfiora i confini della leggenda. Da bracciante poverissimo e semianalfabeta nella Puglia dei primi anni del Novecento a fondatore del più grande sindacato dell’Italia democratica, deputato all’Assemblea costituente, esponente di spicco del Pci nel dopoguerra, presidente della Federazione sindacale mondiale.

Se Togliatti è il capo della classe operaia, Di Vittorio è il mito, un mito che nasce dalla sua identificazione totale con il mondo del lavoro, in un riconoscimento trasversale e assoluto. Guiderà la Cgil (“la grande famiglia dei lavoratori italiani, la nostra Cgil, strumento della nostra forza, garanzia del nostro avvenire”) fino alla sua morte, avvenuta nel 1957 a Lecco dove si era recato con la moglie Anita per inaugurare la nuova sede della locale Camera del lavoro.

Il viaggio della salma è indimenticabile. Ad ogni stazione ferroviaria il treno deve sostare più a lungo per la folla che, a pugno chiuso, si riversa nelle piazze a salutare il suo Peppino. Sette anni prima di Palmiro Togliatti, 27 anni prima di Enrico Berlinguer la sua morte è il primo vero lutto collettivo della sinistra italiana.

“Tutto pare come sospeso - osservava il giorno dei funerali Pier Paolo Pasolini - rimandato: anche io mi ritrovo solo con gli occhi, e come senza cuore, in pura attesa. Ma intanto attraverso gli occhi, il cuore si riempie. Non ho mai visto gente così, a Roma. Mi sembra di essere in un’altra città  (…) Ecco il feretro: molte braccia col pugno chiuso si tendono a salutare Di Vittorio, in un silenzio pieno come di un interno, accorante frastuono. Anche gli uomini che sono davanti a me, a uno a uno, alzano il braccio, a fatica, come se il pugno dovesse reggere un peso insopportabile, e restano così, con quel braccio teso in avanti, quasi ad afferrare, a trattenere qualcosa che loro stessi non sanno, una vita di lotta e di lavoro, la loro vita e quella del compagno che se ne va. Guardo quelle schiene un po’ deformate dalla fatica, sotto i panni quasi festivi, quelle spalle massicce, quei colli nodosi; sono uomini induriti da una infanzia abbandonata a se stessa, da un precoce lavoro, dalle continue difficoltà del sopravvivere, dalla rozzezza di un’esistenza ridotta ai puro pratico, e spesso solo all’animale, dalla corruzione dei quartieri dove vivono. Incalliti dappertutto. Ma come il feretro è appena passato, e le braccia tese s’abbassano, vedo dal loro atteggiamento che qualcosa accade dentro di loro. Uno, davanti a me, piega un poco la testa da una parte: vedo la guancia lunga, nera di barba e il pomello rosso. La pelle gli si contrae, come in uno spasimo: piange, come un bambino. Guardo anche gli altri. Piangono, con una smorfia di dolore disperato. Non si curano né di nascondere né di asciugare le lacrime di cui hanno pieni gli occhi”.

“Quando il carro funebre è giunto, verso le 17 e 40 al Piazzale delle scienze - riporta l’Unità - una donna è giunta a toccare la bara e ha detto: Peppino, non te ne dovevi andare, abbiamo ancora tanto bisogno di te”. Peppino abbiamo ancora bisogno di te, in fondo tutti noi continuiamo a pensarlo.