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Questa mattina (lunedì 27 ottobre), davanti allo stabilimento Benetton di Castrette di Villorba, in provincia di Treviso, oltre 250 lavoratori hanno incrociato le braccia per due ore. Una protesta silenziosa ma eloquente, promossa da Filctem Cgil, Femca Cisl e Uiltec Uil, contro la decisione aziendale di applicare i contratti di solidarietà per il 90 per cento dell’orario lavorativo. Significa, per molti, lavorare un giorno ogni dieci.
I sindacati chiedono chiarimenti urgenti sul piano industriale e sulle reali prospettive occupazionali. Da settimane, raccontano, la tensione cresce in fabbrica. L’azienda ha comunicato via mail a circa 80 lavoratori la riduzione drastica dell’orario, senza alcun confronto preventivo con le rappresentanze sindacali. “Un metodo inaccettabile”, ribadiscono le tre sigle, che parlano di una “rottura del dialogo” dopo mesi di relazioni corrette e costruttive.
Cronisti fuori dai cancelli
Durante il presidio (come precisa l’Ansa) la stampa non è stata ammessa all’interno dell’area aziendale: giornalisti, fotografi e operatori tv sono rimasti dietro ai cancelli, mentre nel piazzale si radunavano decine di lavoratori con bandiere e striscioni. Alla fine del turno gli operai sono usciti per parlare ai media, che hanno documentato dall’esterno una mobilitazione tra le più partecipate degli ultimi anni.
Le due ore di sciopero, articolate tra le 10 e le 12 per il primo turno e nelle ultime due ore per quelli successivi, hanno paralizzato buona parte delle attività produttive. “Non accadeva da almeno 30 anni – commenta un lavoratore – e questo la dice lunga sul livello di esasperazione”.
“Scelta unilaterale, serve rispetto”
Massimo Messina, segretario generale della Filctem Cgil Treviso, ha parlato di una mobilitazione “molto sentita e partecipata”, con un’adesione superiore al 70 per cento. “I lavoratori sono stanchi di una solidarietà che diventa sempre più pesante e che coinvolge la maggioranza del personale”, spiega: “La riduzione del 90 per cento mette a rischio la sopravvivenza reddituale delle famiglie”.
Il sindacato chiede la rotazione dei dipendenti coinvolti e una riduzione dell’orario non oltre il 50 per cento, per evitare che la solidarietà si trasformi in una anticamera degli esuberi. “Ci domandiamo se queste misure possano significare in futuro nuove uscite”, aggiunge Messina.
"L’ultimo incontro con l’azienda risale a luglio, quando la questione solidarietà sembrava chiusa”, prosegue il dirigente sindacale: “Alla Benetton un drastico dimagrimento c’è già stato: nell’ultimo anno si è passati da 1.200 a 750 lavoratori. Oggi l’azienda decide senza confrontarsi con noi, e sul piano industriale non c’è chiarezza”.
Messina critica anche il metodo scelto per comunicare i nuovi ammortizzatori sociali: “Siamo abituati a discutere con l’azienda prima di ogni decisione che riguarda l’organizzazione del lavoro. Stavolta, invece, si è proceduto in modo unilaterale: con una mail che ha colto tutti di sorpresa. Ottanta persone si sono trovate da un giorno all’altro con un taglio quasi totale dell’orario”.
Le radici della vertenza
Il malessere in Benetton covava da mesi. A luglio la direzione aveva assicurato ai sindacati che i contratti di solidarietà — già in vigore da tempo — sarebbero terminati entro l’autunno, segnando una ripresa delle attività ordinarie. Invece, poche settimane dopo, l’azienda ha comunicato una nuova riduzione drastica dell’orario, fino al 90 per cento, riaccendendo la protesta.
Oggi a Castrette restano circa 700 addetti: è l’unico stabilimento produttivo del gruppo in Italia, dopo il trasferimento del quartier generale dalla lussuosa Villa Minelli e la chiusura del centro di ricerca Fabrica, fondato nel 1994 da Luciano Benetton e Oliviero Toscani. Una condizione che rende la vertenza ancora più delicata, perché nel trevigiano si concentra tutta la produzione nazionale.
A preoccupare i lavoratori c’è anche la riorganizzazione prevista per il 1° gennaio 2026, con la suddivisione del gruppo in sette società autonome e il passaggio del personale da Benetton Group alle nuove entità. Un’operazione che l’azienda definisce solo amministrativa, ma che secondo i sindacati rischia di frammentare la forza lavoro e indebolire le tutele collettive.
Il caso Sforza e i numeri della crisi
Da quando Claudio Sforza ha assunto la guida del gruppo i conti sono migliorati, ma a caro prezzo. Le perdite semestrali si sono ridotte da 66,5 a 37,5 milioni, ma il fatturato è sceso e il costo del personale è diminuito di oltre 15 milioni. Obiettivo dichiarato: pareggio di bilancio entro il 2026. “Numeri freddi – dicono i sindacati – dietro cui ci sono persone e famiglie. Le persone non sono numeri”. Per questo lo sciopero di oggi, il primo dopo decenni, è un segnale politico e umano insieme: la richiesta di una rotta diversa, fatta di dialogo, rispetto e trasparenza.





























