C'è lo studente, il migrante, ma anche l'italiano over 50 che ha perso il lavoro e ha bisogno di un reddito. C'è chi è inquadrato come dipendente (una minima parte) e chi è autonomo e magari vuole pure rimanerlo. C'è chi arriva a guadagnare anche 1800 euro al mese, lavorando per più piattaforme, ma quei 1800 sono comunque lordi e poi c'è da pagarsi la bici, o lo scooter e quindi la benzina. E se ti ammali sono affari tuoi e non è che ci sono ferie o riposi: quando lavori, guadagni e più lavori, più guadagni. Sembra cottimo, ma le aziende giurano di no: è “flessibilità”

“I rider sono un banco di prova per il capitalismo del futuro”, ci dice Rosita Rijtano, giornalista de Lavialibera (la rivista di Libera e Gruppo Abele), che ha condotto un'inchiesta sui ciclofattorini, poi trasformata in libro (Insubordinati: inchiesta sui rider, Edizioni Gruppo Abele, 2022). Un libro in cui si propone un parallelo ardito: i rider sono i nuovi sottoproletari, nient'altro che operai di una moderna catena di montaggio, simili alla manovalanza arrivata dal Sud negli anni '60 a Torino. E le piattaforme non sono altro che aziende, padroni mascherati da app, senza volto, eterei e lontani, tanto che i lavoratori non li hanno mai visti, non li vedono mai. “Mi ha colpito quello che è successo in una delle prime proteste collettive dei rider a Torino – racconta Rijtano – quando un manager è sceso in mezzo al presidio a parlare con i lavoratori. Per loro è stata una grande conquista, non era mai successo prima, hanno potuto associare un volto alla piattaforma. Una cosa nuova”. 

Insomma, ridotta all'essenziale, la storia è sempre quella: una storia di oppressori e oppressi. Con una novità importante però, che Rijtano racconta bene: la pervasività della tecnologia nel controllo delle prestazioni dei lavoratori, l'algoritmo che diventa manager e non estrae solo lavoro da chi pedala zaino in spalla, ma anche dati, un'enorme mole di dati, che resta nelle mani delle piattaforme. Tanto è vero che, paradossalmente, ad oggi non conosciamo con esattezza il numero di ciclofattorini attivi nel nostro paese, né la loro età o il loro reddito medio. 

Però Rijtano ha raccolto diverse testimonianze di rider. Alcuni più consapevoli, anche sindacalizzati, come Enrico Francia, delegato Cgil a Torino, o come Talem, sindacalista dei rider a Firenze. Loro sono tra quelli che vorrebbero il riconoscimento dei loro colleghi come lavoratori dipendenti, perché non è vero che il lavoro subordinato non può essere flessibile, mentre è vero – dicono – al contrario che “l'autonomia”, tanto sbandierata dalle app, si traduce in molti casi in una rinuncia a diritti fondamentali: ferie, malattia, maternità, persino salute e sicurezza sul lavoro. “Se un rider cade dalle scale di casa del cliente e si spacca una gamba subito dopo aver consegnato il pasto – spiega Rijtano - sono fatti suoi, non ci sarà nessun risarcimento del danno. Questo perché Inail (dal 2019, prima neanche quello) copre soltanto dal momento in cui arriva l’ordine sulla app a quello della consegna. Tutto il resto del tempo il rider è da solo”.

Eppure c'è una quota di loro, di cui è impossibile capire la consistenza, che preferisce l'autonomia. “Mi sono chiesta come mai – spiega l'autrice del libro – e le risposte possibili sono molte. Per gli stranieri c'è sicuramente una scarsa conoscenza di leggi e diritti, oppure il fatto di essere solo di passaggio, o ancora: la mancanza di alternative”. Per gli italiani invece il discorso è diverso: “Sicuramente – continua Rijtano - ha funzionato in parte la propaganda delle aziende: piena libertà di scelta su quanto e quando lavorare. Ma le cose non stanno proprio così”. Nel libro si racconta ad esempio la contraddizione di un rider, iscritto all'Ugl (il sindacato che ha firmato il contratto “pirata” con Assodelivery, poi giudicato illegittimo grazie al ricorso di Filcams, Filt e Nidil Cgil), che pur rivendicando a gran voce la sua “autonomia” sta sempre con lo smartphone in mano e ammette candidamente di essere “schiavo” del telefono. Un processo, questo, che ha a che fare anche con quella che gli esperti chiamanogamefication, ovvero la percezione di se stessi non come lavoratori portatori di diritti, ma come concorrenti di un gioco a premi, nel quale bisogna fare più punti possibile, vincere sfide (baciare un cliente a San Valentino, nonostante la pandemia, è il caso più clamoroso) e scalare classifiche, sotto una spinta ultracompetitiva incredibile.

Porre un freno a tutto questo è un problema che ora, soprattutto l'Europa, si sta ponendo, cercando di definire un corretto inquadramento dei lavoratori al servizio delle piattaforme. C'è una direttiva della Commissione di fine 2021 che stabilisce l'esistenza di un vincolo di subordinazione quando sussistono almeno due di queste cinque caratteristiche: la piattaforma determina o limita la paga; impone il rispetto di specifiche norme vincolanti sull'aspetto e il comportamento del lavoratore; supervisiona le prestazioni e verifica la qualità dei risultati; restringe di fatto la libertà del lavoratore di organizzare il proprio lavoro, anche attraverso sanzioni; limita la possibilità di crearsi una propria clientela o di lavorare per altri. Bruxelles stima che con questo sistema dai 2 ai 4 milioni di lavoratori europei dovrebbero essere assunti dalle piattaforme. 

Ma l'iter della direttiva è ancora lungo e nel frattempo la parola “diritto” continua ad essere quotidianamente svuotata di significato, perde consistenza, soprattutto per questa nuova classe (senza coscienza) di lavoratori. Qui entra in gioco un altro soggetto che nel libro di Rijtano ha uno spazio importante: il sindacato. L'autrice - che su questo, come su gli altri temi, ha raccolto diverse testimonianze - propone una lettura articolata: “In un primo momento i sindacati confederali sono stati carenti, anche spiazzati da un mondo nuovo con cui avere a che fare – spiega - Sono quindi nate forme di sindacalismo informale, le Unions, gruppi di rider più forti in alcune città, le più grandi soprattutto. Queste hanno messo in campo soprattutto forme di mutualismo, che il sindacato tradizionale, invece, non offriva. Ora però, come spiega il ricercatore Marco Marrone, la spinta delle Unions ha subito una battuta d'arresto e il ruolo del sindacato confederale può tornare strategico per un salto di qualità nella battaglia per i diritti dei rider, soprattutto a livello istituzionale. Nella consapevolezza che da come sarà regolata, o non regolata, la loro attività dipenderà il domani di tutti noi”.