Per il sindacato confederale il compito di realizzare risultati positivi per chi lavora è sempre stato collegato all’estensione di questi benefici all’insieme della collettività. A volte ha significato anche un carico improprio di problemi e responsabilità, non dovuti ma scelti, proprio per le caratteristiche di questo sindacato. Un’esperienza che in Europa oggi è prevalentemente italiana, che per questi motivi dovrebbe essere valorizzata come interesse generale del nostro Paese. Qual è il punto che rende possibile questa sintesi o che, in alternativa, la nega? Il riconoscimento del valore sociale del lavoro come elemento fondante delle diverse scelte che vengono effettuate, così come previsto dalla nostra Costituzione che sancisce l’irreversibilità di fatto dei diritti del lavoro. All’opposto, la linea di frattura è rappresentata da un’idea del lavoro come puro fattore di costo, per cui è normale comprimerlo economicamente, mentre ogni diritto può essere reso reversibile; un’idea oggi troppo praticata. Siamo molto vicini a questa linea di rottura, dopo che in poco più di dieci anni abbiamo vissuto quattro gravissime crisi: le prime due economiche e finanziarie, le altre due ravvicinatissime fra loro collegate alla pandemia e ad una guerra la cui fine per ora non si annuncia breve.  

Queste crisi hanno avuto un fattore comune, il tentativo di scaricare su chi lavora i costi maggiori, con calo e stagnazione dei redditi, esponenziale crescita della instabilità lavorativa e diminuzione dei diritti sociali, a cui spesso solo il sindacato si è opposto. In un contesto nel quale, a causa dei problemi prima richiamati, sono cresciute diseguaglianze, paure e ansie; sono cambiate le abitudini, si perde la fiducia nel futuro e si spera (spesso sbagliando) di potersela cavare da soli. 

Per troppe persone – quindi - il lavoro negli anni non è più risultato l’elemento fondamentale di crescita ed emancipazione personale, creando un problema da cui non sarà facile uscire. Non a caso, molto spesso i giudizi espressi sulla condizione generale del Paese sono peggiori di quelli, pur negativi, sulla propria condizione personale, secondo il noto detto “Io, speriamo che me la cavo”. Fortunatamente non è ancora la maggioranza dei lavoratori quella che ha immaginato come via di fuga possibile solo quella personale e non collettiva, ma si è comunque contribuito a far crescere un esasperato individualismo che sta pervadendo la nostra società. Un grande paese non può ridursi così, facendo venire meno le basi comuni per una ripartenza.

Mi soffermo solo su alcuni aspetti che, assieme ad altri, dovranno essere inseriti in un ampio e complesso ragionamento sulla rappresentanza del lavoro. È più importante oggi ripartire dalle condizioni materiali o da quelle ideali? A questa domanda nel passato avrei sempre risposto dando uguale peso ai due fattori; nella situazione attuale se non si parte dalla condizione concreta difficilmente si riuscirà a interloquire con le persone. Quando l’inflazione arriva al 6% ed erode in modo sostanziale la vita dei ceti sociali più fragili, quando oltre sei milioni di persone (un terzo circa di tutti i lavoratori dipendenti) hanno un’occupazione insicura o comunque tale da avvicinare o far scendere il proprio salario alla soglia di povertà, o si è in grado di dare risposte o la conseguenza è quella di rescindere un legame positivo con una parte del lavoro. È così anche quando centinaia di migliaia di giovani e donne si trovano nella condizione di non aver mai conosciuto un lavoro a tempo indeterminato e a tempo pieno. Questo pone tutti di fronte ad una domanda: quelle del sindacato sono solo rivendicazioni di parte oppure assumono un significato diverso? A questa domanda devono rispondere governo, politica e imprese.

Le conseguenze delle risposte su contratti, salario e precarietà non saranno neutre. Non possiamo permettere che si avvicini questo punto di rottura della solidarietà tra generazioni e la certezza dei diritti si fonda anche e prevalentemente sulle condizioni di lavoro. Sono solo alcuni degli interventi più urgenti da realizzare attraverso una riforma fiscale, del lavoro, previdenziale, ridando un ruolo centrale ai contratti nazionali di lavoro. Tutto ciò  avrebbe fra l’altro ripercussioni positive oltre che sulla condizione delle persone sul sistema paese: più consumi, produzione che si sposta verso elementi di qualità, eccetera. Creando così la possibilità di non emigrare per chi si forma in Italia ma non trova condizioni economiche e professionali possibili, per riportare fiducia nel futuro, elemento che rappresenta uno dei fattori fondamentali dello sviluppo economico.

Un paese importante come il nostro non può assistere inerte al calo demografico in atto e anche da questo punto di vista le condizioni materiali sono aspetti essenziali alla base  del crollo delle nascite. Contemporaneamente, serve una politica migratoria degna di questo nome. Siamo finalmente arrivati al punto che perfino nella Lega si chiede un allargamento dei flussi in entrata, per dirla in slogan da “Aiutarli a casa loro” a “Facciamoci aiutare a casa nostra”, ma senza arrivare alle necessarie condizioni di  inclusività, a partire dai criteri della cittadinanza. Anche le politiche di welfare devono misurarsi con questa nuova realtà: le persone invecchiano per fortuna e dobbiamo smettere di pensare che sia un problema puntando a farlo divenire una grande opportunità a partire da un nuovo ruolo pubblico dei servizi. Per legare tutti questi aspetti la formazione e la conoscenza sono elementi fondamentali.  

Ma che paese si immagina quando non si garantisce attività di formazione a tutti e per tutto l’arco della vita e contemporaneamente si programma un calo di risorse in previsione della diminuzione della popolazione studentesca? Una vera idea di sviluppo deve mettere in relazione tutti questi aspetti: si tratta di quel “benessere equo e sostenibile" che in tanti citano ma in cui pochi credono e contribuiscono a costruire le condizioni per attuarlo. Anche per questo resta decisivo il ruolo di un sindacato confederale.  

Fulvio Fammoni, presidente della Fondazione Di Vittorio