Un tempo era famosa per il suo prosciutto cotto, oggi è salita alla ribalta delle cronache per due brutali licenziamenti. Quello odioso di un rappresentante sindacale della Flai Cgil e quello disumano di un dipendente da tempo malato di cancro, poi contagiato dal Covid.

Sembrano passati anni luce da quello spot rassicurante che nel 2016 dava alla Ferrarini il volto di una famiglia riunita in un grande prato verde, davanti a una grande casa colonica, intenta a mangiare del prosciutto cotto – assicurava la voce fuori campo – assolutamente genuino. Quel volto che suggeriva un’attenzione alla responsabilità sociale rara nel panorama dei grandi gruppi industriali, è stato cancellato in pochi anni da una gestione disastrosa. Sostituito da una faccia segnata dalla cicatrice inconfondibile della razza padrona, spietata e avida. Attenta, più che alla qualità del prosciutto, a silurare dipendenti scomodi, perché malati o perché sinceramente coraggiosi.

Sic transit gloria mundi. In una manciata di anni appena. Quelli che sono bastati alla famiglia Ferrarini per dilapidare un patrimonio morale e materiale, tra operazioni dissennate e licenziamenti.

A spiegarci quello che è successo nei due stabilimenti di Parma e Reggio Emilia è Matteo Lanini, funzionario della Flai Cgil parmense.

“La crisi Ferrarini nasce da un problema di gestione. La famiglia ha deciso di acquisire la Vismara e per farlo si è esposta, indebitandosi. In questo quadro già critico è arrivata la crisi delle banche venete che hanno chiuso i rubinetti. I creditori si sono fatti avanti, il debito è arrivato alla cifra stratosferica di 350 milioni di euro, lo stabilimento nuovo della Vismara non ha mai funzionato a regime e quindi è andato avanti in perdita. Qui parliamo proprio di cattiva gestione e di crisi finanziaria – sottolinea Matteo Lanini –. A luglio 2018 viene aperta una procedura concorsuale. L’azienda ha depositato una richiesta di concordato al Tribunale di Reggio Emilia. La scadenza per la presentazione del piano è stata prorogata più volte. Alla fine sul tavolo sono arrivate due proposte molto diverse: la prima è quella del gruppo Pini, conosciuto come il re della bresaola, sostenuta dai Ferrarini perché consentirebbe loro di restare nella gestione. La seconda è quella di Bonterre, gruppo solido, che taglierebbe fuori la famiglia”.

Il sindacato si è pronunciato? “Noi ci siamo sempre definiti neutrali sulle proposte, il nostro ruolo, oggi, è quello di spettatori, i progetti sono diversi. L’esito è incerto. Noi chiediamo solo garanzie occupazionali, che i dipendenti continuino a lavorare. Quando ci sarà l’omologa di un concordato potremo interloquire e giudicare il piano e i progetti futuri. Ma personalmente non posso non notare alcuni elementi di preoccupazione nella proposta del gruppo Pini, che comprende anche Amco, la partecipata pubblica del ministero dell’Economia. Questo certo è un settore importantissimo, ma non è l’acciaio. Stupisce l’idea che si investano soldi pubblici per salvare un’azienda di prosciutti. Non è un caso che ci siano interrogazioni parlamentari in merito”.

Come nasce questo affondo dell’azienda contro i propri dipendenti? “La storia della Ferrarini è anomala. A Parma è sempre stata sindacalizzata, a Reggio Emilia è un fatto recente. Solo con la vertenza i lavoratori, spaventati dalla situazione, hanno chiamato i sindacati. Il gruppo a Reggio ha una tipica storia di capitalismo familiare, in qualche modo sono tutti parenti, amici degli amici, sono molto filo aziendalisti: quando parla la Ferrarini trova molto riscontro. A Parma è diverso. In tutto i dipendenti a Parma sono 80, a Reggio 250. Qui devono ancora percepire la retribuzione congelata, un mese e mezzo di stipendi arretrati fermi e, si spera, da pagare al concordato, a Reggio una mensilità in più, più i ratei. Nonostante questo, i Ferrarini hanno sempre creduto di andare avanti e mantenere un clima sereno e tranquillo. In questo quadro già molto complesso e intricato l’azienda ha fatto delle assemblee con i lavoratori, in una occasione anche quelli di Reggio Emilia sono stati portati a Parma, per fare una riunione in cui fossero tutti presenti, per promuovere la proposta concordataria sostenuta da loro e spiegare perché fosse migliore di quella concorrente e perché i lavoratori dovessero appoggiarla. Secondo l’azienda questo convincerebbe il tribunale”.

I tempi della decisione sul merito delle due proposte saranno ancora molto lunghi, soprattutto dopo la richiesta di trasferire gli atti dal Tribunale di Reggio a quello di Bologna.

Perché questo accanimento contro i lavoratori in un momento così difficile? “Sono lavoratori scomodi. Alain, il dipendente malato, che in Ferrarini ci lavorava da vent’anni, è poco ricollocabile in un prosciuttificio. Il lavoro è duro e l’azienda, come ha già fatto in passato, tenta di liberarsene. Nicola, il nostro delegato, era il portavoce di quella libertà di pensiero e di quelle richieste di tranquillità che tanti lavoratori rivendicavano. Sanno che il futuro è incerto, ma sanno anche che non dipende da loro e quindi chiedono di poter vivere tranquillamente. Poi quello a Nicola è stato anche un chiaro attacco al sindacato. L’azienda più volte ha cercato in noi una sponda amica, allo scopo di avere un’altra voce che la sostenesse nei tribunali e favorisse la sua cordata. E visto che noi, come in tutti i concordati passati, siamo rimasti neutrali, l’azienda ha colpito il delegato”.

Come se ne esce? “Continuo a sostenere che le aziende si salvano con il lavoro. Io vengo da Parmalat, il più grande crack europeo del food, un buco da 13 miliardi. Da quella esperienza abbiamo imparato che solo il lavoro è riuscito a salvare l’impresa. Non la polemica, non le pressioni, non i tribunali. Ci siamo rimboccati le maniche e abbiamo portato avanti un progetto per uscire dalla crisi finanziaria. È questo quello che serve alla Ferrarini. Alla Parmalat abbiamo avuto un cambio di dirigenza e di proprietà, adesso Parmalat è francese, eppure l’azienda è ancora lì e nessun posto di lavoro è stato perso. Ci interessa che alla Ferrarini succeda lo stesso”.

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