“Per molti anni ho sperato in una sanatoria, come quella del 2002, per poter avere permesso di soggiorno e lavoro regolare. La famiglia napoletana da cui ho lavorato fino a tre anni fa, avrebbe fatto qualunque cosa per farmi firmare un contratto, ma ero senza documenti. Ora il permesso di soggiorno ce l’ho, ho sposato un italiano, e mi sono trasferita al Nord dove vive mio marito, ma di lavori riesco a trovarne solo in nero”. Gaia ha 54 anni e arriva dalla Ucraina, ha una voce allegra che trasmette ottimismo e forza. Ama Napoli, la città che l’accolse nel 1999 quando dalla sua terra al confine con la Polonia arrivò in Italia per la prima volta, tanto che lì ha ambientato i racconti che nel tempo ha scritto. Quando “uscì” la sanatoria del 2002, la famiglia partenopea per la quale lavorava fece la domanda, ma Gaia decise di tornare a casa a crescere i suoi tre figli e a esercitare la sua professione, è architetta edile. I figli sono cresciuti, la prima si è laureata in architettura e Gaia le ha ceduto il posto.

“In Ucraina, come in Italia per le donne, tanto più se non giovanissime, trovare lavoro è difficile. Una discriminazione ingiusta – dice ancora Gaia – e allora nel 2013 sono tornata in Italia”. Napoli è stata la sua città finché non si è trasferita in Veneto. È una donna consapevole e assetata di sapere, contenta della scelta compiuta anni fa: ha rinunciato al permesso di soggiorno, ma “ho dato una buona educazione ai miei figli e se fossi rimasta in Italia non ci sarei riuscita. E poi per un po’ ho esercitato la mia professione e anche questo mi ha fatto piacere”. Vorrebbe tanto un lavoro regolare, con diritti e dignità, ma “per una donna di 54 anni non è possibile nemmeno nella mia seconda patria”.

Viene chiamata regolarizzazione, quella prevista dal 'decreto rilancio'. La finestra temporale per presentare le domande va dal 1° giugno al 15 luglio, ma in realtà - come sostiene Wendy Garlarza della Filcams Cgil Umbria - non è una regolarizzazione vera e propria né una sanatoria come furono in passato: è il tentativo, giustissimo, di far emergere il lavoro nero. Tant’è vero che le domande possono riguardare anche lavoratori e lavoratrici italiane. Ma i requisiti previsti dalla norma sono dei veri e propri paletti che rendono difficile a molte e molti ottenere l’agognato permesso di soggiorno, che - lo ricordiamo - è temporaneo, dura sei mesi e viene riconosciuto solo a chi può dimostrare di aver lavorato in uno dei tre settori previsti, ossia colf, badanti e lavoro agricolo, cui il permesso di soggiorno è scaduto dal 31 ottobre 2019 in poi.

Shoku è arrivata dalla Costa d’Avorio sei anni fa, e vorrebbe davvero poter ottenere “i documenti”, ma purtroppo non sarà possibile perché il suo permesso di soggiorno è scaduto da ben prima del 19 ottobre dello scorso anno: è scaduto tre anni fa, dopo la perdita del lavoro. Da allora solo occupazioni in nero, per lei non c’è altra possibilità. È il paradosso delle norme: lavora in nero perché non ha i documenti, ma non può accedere alla regolarizzazione perché lavora in nero da tre anni. Marizza è peruviana ed è entrata regolarmente in Italia otto mesi fa con un visto turistico ormai scaduto. Anche per lei il permesso di soggiorno è un vero miraggio, irraggiungibile. Lavora in provincia di Perugia, “regolarmente” senza contratto; i suoi datori di lavoro non ci pensano proprio a fare la domanda, hanno paura dei costi troppo elevati che un contratto regolare comporta.

Quello dei costi è un problema reale, un vero e proprio freno alla presentazione delle domande, ci dice Wioletta Sardyko della Filcams di Napoli. Allo sportello aperto insieme alla Flai Cgil, al patronato Inca e all’Ufficio migranti della Camera del lavoro partenopea, sono moltissimi coloro che si sono recati per avere informazioni, non solo lavoratrici e lavoratori, ma anche datori. Ma poi le domande che realmente vengono presentate sono poche. “Gli ostacoli maggiori sono costituiti dai troppi passaggi burocratici, ciascuno dei quali ha un costo: bolli, imposte e acquisto della busta in posta, che sommati ai 500 euro del contributo diventano davvero tanti", afferma Sardyko, evidenziando che "a questi andranno poi aggiunti i contributi fiscali e contributivi forfettari di cui non si conosce ancora l’ammontare, devono essere definiti da un decreto interministeriale che però ancora non è stato emanato. E poi, il numero minimo di ore settimanali del contratto da stipulare è troppo alto”.

Il mondo del lavoro domestico, soprattutto quello dedicato all’assistenza di persone anziane o non autosufficienti, è davvero variegato. Secondo gli ultimi dati Inps disponibili (risalgono alla fine del 2018), gli iscritti con il contratto di lavoro domestico sono 859 mila, anche se in realtà si stima che gli addetti nel settore siano oltre due milioni, e leggendo questi numeri ben si capisce quale sia l’incidenza del lavoro nero. Oltre il 90 per cento dei lavoratori regolarmente assunti è donna, 53% colf e 47% badanti, di cui ben 640 mila straniere.

“La diffusione del lavoro nero tra le mura domestiche ha diverse ragioni: da un lato esiste un elemento culturale troppo diffuso nel nostro Paese, dall'altro c'è una questione legata ai costi, visto che un contratto regolare è eccessivamente oneroso per molti anziani", spiega Luciana Mastrocola, responsabile del lavoro domestico per la Filcams Cgil nazionale, " La verità - aggiunge - è che bisognerebbe sia ripensare le politiche migratorie sia riflettere su come sostenere una società che invecchia e rispondere efficacemente ai bisogni di cura delle famiglie”. Una volta, prosegue Mastrocola, la famiglia "era larga: c’erano mamme, zie, nonne, che si prendevano cura della casa, dei bambini e degli anziani. Oggi le famiglie sono diventate piccole, ma il problema dovrebbe essere assunto dalla società attraverso servizi e contributi. E poi dovrebbe esserci da parte del pubblico la possibilità di far incontrare domanda e offerta di lavoro domestico”. La cosa più importante e urgente, secondo la responsabile sindacale, è che venga licenziato il decreto per la definizione dei contributi forfettari fiscali e previdenziali, perché se le famiglie non conoscono il costo complessivo della regolarizzazione, difficilmente faranno le domande.

Il nero, dicevamo, è un fenomeno diffusissimo che ha reso impossibile a molte lavoratrici accedere al bonus per colf e badanti. Dora è peruviana, è in Italia da oltre dieci anni e lavora anche dieci ore al giorno, saltando, letteralmente "saltando", da una casa all’altra. Per fortuna ha incontrato una datrice di lavoro corretta che le ha fatto firmare un contratto di lavoro regolare, una su tante. Durante il lockdown ha continuato a tenere pulita la casa della “signora regolare”, ma i suoi altri lavori sono stati sospesi, riducendo così notevolmente il suo reddito per marzo, aprile e maggio, soldi che servono a mantenere se stessa qui e la figlia in patria. Dora è andata al Caaf sperando di poter ottenere il bonus, ma ovviamente non è previsto per la sospensione di un lavoro che non risulta.

Torniamo alla regolarizzazione, o meglio al diritto negato alla regolarizzazione. Susanna è nata 51 anni fa in Uzbekistan, dal 2012 è nel nostro Paese e nel 2018 ha presentato la richiesta di asilo politico. Sono passati due anni e una risposta ancora non l’ha avuta, ma in attesa che la Commissione preposta si pronunci le è stato assegnato un permesso provvisorio. Con quello Susanna è riuscita a ottenere un contratto di lavoro regolare. Non può accedere alla procedura prevista dal 'decreto rilancio', se la sua richiesta di asilo sarà respinta si ritroverà "clandestina” e perderà il suo contratto regolare di lavoro.

Insomma, sembra davvero la commedia dei paradossi: chi, come Gaia, ha il permesso di soggiorno non riesce a trovare il lavoro regolare, mentre chi quel lavoro oggi ce l’ha, come Susanna, rischia di perderlo insieme al diritto legale di soggiornare nel nostro Paese. E il Covid-19 con tutto questo c’entra davvero poco.