È cominciata con quello di Codogno e poi quello di Lodi. Ed è continuata, senza seguire il reale ordine di diffusione, con altri della Lombardia e poi Roma con alcuni reparti del Policlinico Umberto I, con quello di Tor Vergata, e poi in Sardegna e in Puglia passando per Napoli e in Sicilia con i nosocomi di Catania ed Enna. Insomma esiste un’emergenza nell’emergenza quella degli ospedali. Ne parliamo con Rossana Dettori, segretaria nazionale della Cgil con delega alla salute.

I presidi ospedalieri, oltre ovviamente ad essere i luoghi dove si cura e si salvano vite, sono anche luoghi di contagio. Di queste ore la notizia della Chiusura del San Paolo di Civitavecchia e del reparto di Gastroenterologia del San Camillo di Roma, o dei 72 sanitari positivi al Covid-19 in Puglia.

Quando il virus è arrivato nel nostro Paese, secondo gli esperti era fine dicembre al più tardi i primi di gennaio, in maniera imprevista ed imprevedibile, non è stato riconosciuto. È probabile che alcuni pazienti anziani per lo più, ricoverati nei reparti di medicina o di pneumologia, per complicazioni polmonari da influenza stagionale, in realtà fossero Covid-19 positivi. Così verosimilmente è cominciata la contaminazione di quei presidi. Quando ad ammalarsi di polmonite resistente alle comuni terapie è stato un uomo di 38, dopo giorni, si è proceduto a somministrare il primo tampone e così ci si è resi conto che il coronavirus era arrivato. Ma il paziente 1 era transitato più volte per il pronto soccorso di due diversi ospedali, per un reparto di degenza e infine per la terapia intensiva senza che venissero seguire le procedure di contenimento e isolamento. E coì sarà successo anche per il paziente di Vo Euganeo e per quanti non sono stati diagnosticati. Insomma fino al 22 febbraio negli ospedali italiani non sono state attuate procedure indispensabili per il contenimento delle malattie infettive. In alcuni casi anche successivamente attemperare ai protocolli specifici non è stato e non è semplice. Oggi si è aperta un’altra emergenza, quella delle Rsa. Stanno diventando dei veri e propri focolai incontrollabili, dobbiamo intervenire subito e bene, vanno protetti gli ospiti delle strutture e il persale che è assai meno tutelato degli operatori degli ospedali. Proprio a questo proposito abbiamo chiesto un incontro al ministero degli Affari sociali, e all’Anci, e alle regioni, speriamo di vederci presto.

Perché una volta acclarato che il virus era arrivato in Italia gli ospedali hanno fatto così fatica a reagire in maniera adeguata?

Innanzitutto, lo abbiamo scoperto con drammaticità, perché le dotazioni di protezioni individuale, dalle mascherine ai camici monouso fino alle divise agli occhiali e ai calzari, non erano nelle dotazioni ordinarie e ancora oggi scarseggiano. I sanitari non riescono a proteggersi adeguatamente, si contaminano e a loro volta contamino altri. Poi, rifletto ad alta voce, penso che al di là del personale che opera nei reparti di terapia intensiva e di malattie infettive, forse l’abitudine alle procedure per la limitazione delle contaminazioni negli ospedali, così come nelle case di cura o nelle Rsa, non sia tanto diffusa, non è appunto un’abitudine. In molto strutte, ad esempio, si stanno predisponendo ora con molto ritardo percorsi e strutture alternative per i pazienti che si presentano con sintomi riferibili al Coronavirus. Ma chi si sente male comunque va in ospedale rendendolo poco sicuro. La situazione migliora giorno per giorno ma ancora non tutte le strutture del Paese sono attrezzate per il triage esterno. 

Facciamo un passo indietro. La legge istitutiva del Ssn del 1978 si basa su tre grandi pilasti: prevenzione, cura, riabilitazione. Dalle tue parole sembra emergere che il primo pilastro sia stato sostanzialmente dimenticato. I percorsi di prevenzione, al di là del Coronavirus sono mai esistiti, sono stati abbandonati, cosa è successo?

Meno male che abbiamo ancora in Servizio Sanitario Nazionale che, nonostante tutto sta rispondendo bene. Va riconosciuta la capacità del personale che sta dando il massimo, nel dare il massimo però è anche esasperato perché si trova ad operare davvero in condizioni estreme non solo per la quantità e complessità dei pazienti, ma anche per le condizioni di lavoro, dagli orari alle attrezzature. Avremmo bisogno di personale molto vigile e pronto alla reazione alle imprevedibilità che si susseguono, e certo doppi turni e assenze di pause per evitare di togliersi i presidi che scarseggiano sono un problema. È evidente, per rispondere alla domanda, che la gestione di una epidemia così particolare e terribile, viene aggravata dal fatto che almeno da 25 anni a questa parte prevenzione questa sconosciuta. Questo pilastro è stato il primo ad essere abbandonato, voglio definirlo così, il primo a vedersi sottrarre risorse. E la scarsità del personale non è ininfluente rispetto a questo ragionamento. Pochi medici, pochi infermieri, pochi specialisti in virologia e epidemiologia, pochi addetti alla salute pubblica e la prevenzione non solo non si fa, ma si perde anche la capacità di costruire la cultura diffusa della prevenzione. Ci si occupa della cura, un po’ della riabilitazione (sempre meno nel pubblico e sempre più nel privato accreditato), ma la salute dei cittadini e delle cittadine la si garantisce innanzitutto cercando di prevenire le cause delle malattie. E se dagli ospedali ci spostiamo ai medici di famiglia ci accorgiamo che loro non sono stati formati proprio sui versanti epidemiologici e di come si fronteggiano diffusioni virali o non sono stati preparati ad affrontare situazioni di emergenza come questa. Insomma, mentre fronteggiamo il virus e plaudiamo all’abnegazione di chi è in prima linea, dobbiamo riflettere su come da domani adeguare il Ssn alle esigenze e alle criticità che l’epidemia ci ha disvelato. Finita l’emergenza, anzi già ora, il vero tema è il rilancio del Servizio Sanitario e della ricerca. Infine vorrei sottolineare che per reggere l’urto dei tanti malati di Covid-19 gli ospedali hanno sostanzialmente ridotto, in alcuni casi chiuso, qualunque altra prestazione, dalle visite specialistiche agli interventi chirurgici programmati, dalle indagini strumentali fino alle interruzioni volontari di gravidanza. Viste le circostanze era inevitabile ma così si sta ledendo il diritto individuale alle prestazioni, alla salute, all’autodeterminazione. E sappiamo quanto questi diritti sia già fragili visto - ad esempio - le lunghe liste di attesa che ciascuno di noi deve affrontare normalmente per qualunque tipo di prestazione. Anche questo rende evidente quanto in questi anni si sia portato quasi al collasso il sistema. Occorre ripartire dal valore pubblico del Ssn.

Se continuiamo a seguire il filo del ragionamento dell’intreccio tra criticità prevenzione ed emergenza ci accorgiamo che esiste un altro fronte aperto. La medicina del territorio, di due giorni fa la lettera appello di 81 sindaci della provincia di Milano affiancati dal primo cittadino di Bergamo che lancia un vero e proprio grido di allarme sostenendo che in Lombardia questo fronte è assai fragile ed insufficiente. Non è così in tutte le regioni ma il territorio è un problema?

Il territorio è l’altra gamba del sistema da ricostruire. Ma faccio un passo indietro, l’altro dramma che abbiamo di fronte è che parliamo di sistema nazionale e invece dovremmo parlare di sistemi regionali e ognuno sta cercando di cavarsela come meglio crede. Si ripropone prepotentemente un tema che noi sono due anni che poniamo come questione da affrontare, sto ovviamente parlando dell’autonomia differenziata. Non è possibile andare avanti con i livelli essenziali e il finanziamento nazionale e l’organizzazione del servizio regionale e ognuno si regola come crede. È sotto gli occhi di tutti che così non funziona. La Lombardia ha scelto di concentrare quasi tutto il sistema sugli ospedali, realizzando anche dei centri di eccellenza non c’è che dire, ma oggi si dimostra che questa strategia non è in grado di rispondere efficacemente ai diversi bisogni di salute dei cittadini. Non solo si è concentrato sugli ospedali, ma siccome i posti letto sono stati tagliati anche li, la scelta compiuta è stata quella di ridurre i Drg più costosi, ad esempio i letti di terapia intensiva, a cui corrispondono meno macchinari e meno medici anestesisti e rianimatori, certamente producendo un risparmio del sistema ma di fronte all’emergenza sono scoperti. Questo tipo di risparmi, meno posti letto e meno postazioni di terapia intensiva, sono diffusi quasi tutte le regioni. E poi in Lombardia come altrove non si è costruito la sanità di territorio, si è caricato ogni singolo medico di famiglia di troppi pazienti rendendo impossibile seguire ciascuno adeguatamente. Da anni sosteniamo che oltre al medico di famiglia dovrebbe esservi il servizio infermieristico di territorio, se ci avessero dato ascolto certamente saremmo in grado di fronteggiare la pandemia in maniera diversa.

Se questo è il quadro, quali sono le prime cose che in emergenza in corso chiedete al governo?

La priorità è tutelare cittadini, operatori e operatrici. Quindi investire investire investire in sanità. Come abbiamo siglato nel Protocollo per la sicurezza e prevenzione nei servizi sanitari - discendente da quello del 14 marzo -, occorre garantire a medici, infermieri, operatori socia sanitari, lavoratori e lavoratrici in appalto che si occupano di pulizia e sanificazione ma anche dei pasti e della manutenzione degli apparati ospedalieri, di operare in sicurezza: dispositivi di protezione individuali, non si può derogare da questo. Si riconvertano le produzioni nazionali e si trovi ciò che serve sul mercato internazionale senza sosta. Occorre, poi, continuare con il reclutamento del personale perché si deve garantire a chi opera in prima linea turni di riposo e pause, ne va della loro salute e di quella di chi è loro affidato. E probabilmente dobbiamo pensare a equipe di sostegno psicologico per chi gestisce i pazienti. Occorrerà anche parlare del loro salario, ovviamente, non solo per l’emergenza. È, poi, necessario definire una procedura omogenea su tutto il territorio nazionale che stabilisca per quanto riguarda tamponi e sorveglianza del personale sanitario, e se vi è un sospetto di positività - in attesa di conferma - devono comunque andare in quarantena proprio per evitare la diffusione del contagio dagli ospedali. Infine questa emergenza ci impone una questione, quella della formazione, di chi sta studiando per divenire medico o infermiere, di quanti sono già in servizio. Ogni operatore sanitario è obbligato ai corsi di aggiornamento obbligatori, dobbiamo rivedere i contenuti: prevenzione e salute pubblica devono essere messi al centro della formazione permanente. Insomma occorrerà subito costruire quel pilastro del Ssn abbandonato anche diffondendo davvero la cultura della prevenzione tra di per professione si occupa della salute e tra tutti i cittadini e le cittadine del Paese.