È il giorno peggiore da quando tutto è iniziato. Lo è per tutti, lo è, ancora una volta, di più, se possibile, per la Lombardia, la regione martire di questa guerra senza armistizi. La sensazione è nell’aria già nel primo pomeriggio, per noi che seguiamo gli aggiornamenti nel rigido isolamento domiciliare. Ce la trasmette il drammatico video appello a restare in casa del governatore, Attilio Fontana, che diventa rapidamente la breaking news di tutte le testate. “Restate in casa – scandisce Fontana –. Presto non saremo più in grado di aiutare chi si ammala”. Parole che anticipano il bollettino impietoso delle 6 di pomeriggio. 475 morti nel Paese, un numero che in 24 ore non si era mai visto neanche in Cina. Di questi, 319 in Lombardia. Mentre il quadro si va completando, siamo già al telefono con Elena Lattuada, la segretaria generale della Cgil lombarda.

“La situazione è drammatica. Ognuno di noi, ormai, conosce persone malate o è stato toccato da un lutto. La pressione è molto forte. Questa mattina (ieri, ndr) è arrivata la notizia della morte di due compagni della Fiom bresciana (Roberto Rubicondi e Ermes Bazzani). In ogni Camera del lavoro ci sono compagni, o loro familiari stretti, colpiti dal virus, malati, ricoverati in ospedale o in quarantena nelle proprie abitazioni”. 

Una realtà devastante, fino a poche settimane fa impensabile. Come ci si è arrivati? “C’è stata una contraddizione evidente – ci risponde Elena Lattuada –. Gli appelli ripetuti negli ultimi giorni dal governatore Fontana stridono con il fatto che sono ancora tante le persone che dal lunedì al venerdì devono recarsi al lavoro. Così si fa fatica a comprendere il messaggio. Da una parte si invita tutti a rimanere in casa e, sembrando evidente che la via dell’autoregolamentazione non funziona, si invocano misure anche più restrittive. Dall’altra, al netto di alcune grandi aziende manifatturiere che hanno deciso di fermarsi, restano ancora tanti i luoghi di lavoro aperti”. 

E quindi? “Bisogna limitare la prestazione d’opera solo dove risulta indispensabile, penso ovviamente alla sanità e a tutti gli altri settori di pubblica utilità. Nel resto dei casi occorre fermarsi, altrimenti resta troppo stridente la differenza tra un messaggio che dice ‘bisogna produrre’ e un messaggio che dice ‘dovete stare in casa perché questo è l’unico modo per arginare il contagio’. Una contraddizione nella quale è incorsa la stessa Regione che, a fronte del protocollo nazionale sottoscritto, non ha voluto allargarne o estenderne alcune parti o comunque darne concreta applicazione”.

Nel frattempo cosa si può fare? “In queste ore stiamo discutendo con la Regione a proposito di un rallentamento dell’attività nella grande distribuzione organizzata. Intanto i lavoratori dei trasporti da oggi (ieri, ndr) hanno intensificato i turni per permettere, anche alle persone che si recano a lavoro in metropolitana e sui mezzi pubblici, il rispetto delle distanze di sicurezza imposte dal governo”.

Quali sono i territori in cui la situazione è più drammatica? “La provincia di Lodi è stata la prima, in Italia, ad essere attraversata dal virus, ma aver preso rapidamente la decisione di creare una zona rossa e confinata, per quei primi dieci comuni, ha dato risultati concreti, anche se lo stato delle cose resta senz’altro drammatico. In altre zone, purtroppo, non si è fatta da subito la stessa scelta e di questo, adesso, se ne stanno pagando prezzi salatissimi in termini di vite umane e di contagiati. Mi riferisco alle province di Bergamo e di Brescia. L’Eco di Bergamo, il quotidiano locale più diffuso, ogni giorno, ormai, occupa con i necrologi dieci, dodici pagine”. Tra i caduti in città, nelle ultime 24 ore, due lavoratori delle Poste e il primo medico di famiglia, ma sono centinaia le vittime solo nell’ultima settimana. “Le chiese non sanno più dove mettere le bare. In città e nei paesi ci sono solo ambulanze che girano. E nella provincia di Brescia la situazione è altrettanto grave. E anche nel caso di questi territori, la spasmodica e comprensibile ricerca di medici si scontra con la decisione di non adottare misure restrittive fin dall’inizio. Quello che si è fatto nel Lodigiano – è la denuncia della segretaria della Cgil lombarda – non si è fatto a Bergamo anche per ragioni produttive, perché si pensava di poter continuare a lavorare e che comunque, in un modo o nell’altro, sarebbe passata. Oggi, di queste decisioni, siamo qui a pagarne il prezzo”.

Una fotografia nitida della situazione, sovrastata “dal problema drammatico dell’emergenza sanitaria e delle condizioni in cui opera il personale. Non so – ammette preoccupata Elena Lattuada – fino a quando potranno reggere questi ritmi. Non so dirlo”. Non è tutto. Adesso c’è anche il tema delle Rsa, le residenze sanitarie assistenziali, che in Lombardia, come è noto, hanno a disposizione tantissimi posti letto e sono strutture molto diffuse sul territorio. “Alcune di queste residenze – ci spiega la leader sindacale – sono state adibite anche a post ricovero di persone malate di Coronavirus. Ma spesso il personale delle Rsa non ha né i dispositivi di protezione individuale adeguati, né la competenza professionale per gestire questa situazione. Questo, unito al fatto che per evitare la propagazione del contagio ai parenti non è consentito visitare l’ammalato, ci mette nella condizione di non sapere cosa sta accadendo in quelle strutture. Voci non confermate le raccontano come luoghi dove gli infetti, tendenzialmente persone molto fragili e molto anziane, vanno a morire”.

Questa oggi è la Lombardia assediata dal Coronavirus. “Una regione che pure si è sempre fatta un grande vanto delle proprie strutture ospedaliere e che certamente, se paragonata ad altre parti del Paese, ha saputo reagire. Per questo è arrivato il momento che i lombardi si fermino, restino a casa. Una misura drastica che non può essere lasciata alla responsabilità del singolo, ma deve essere accompagnata e stimolata da atti conseguenti da parte del sistema delle imprese. È necessario uno sforzo ulteriore”. Come sindacato cosa avete fatto e cosa potete fare? “Come sindacato ci siamo e ci siamo stati – risponde Elena Lattuada –. Nei rapporti istituzionali. Nell’assistenza alle persone, anche a distanza. Ci siamo stati fisicamente perché le strutture della Lombardia continuano a lavorare e, con le dovute precauzioni, ci sono Camere del lavoro che ancora ricevono utenza, e tutte continuano a dare risposte e sostegno. Ci siamo stati perché fino a che c’è una sola persona che lavora, la Cgil c’è. Questo è stato il criterio che abbiamo usato per stringere i denti e andare avanti”.

PER APPROFONDIRE:
Qui a Bergamo è una lotta contro il tempo, G.Peracchi
Sanità privata? Non per le emergenze, C.Ruggiero